Non più, non solo il Sahel o il Corno d’Africa. L’ultima frontiera dell’estremismo islamico è l’Africa australe, un territorio immenso tra l’Oceano Indiano e l’Atlantico in cui la fragilità delle istituzioni locali e l’emarginazione di vaste fasce della popolazione favoriscono la penetrazione di gruppi jihadisti.
Gli attacchi, soprattutto da parte di sigle poco conosciute, sono sempre più frequenti: fanno gola le ricchezze del sottosuolo e la possibilità di gestire grandi porzioni di territorio. Se in Sudafrica lo scorso anno erano stati segnalati almeno tre assalti contro altrettante moschee, è il Mozambico, negli ultimi mesi, il Paese che preoccupa maggiormente e che potrebbe fare da testa di ponte per l’intera regione.
Qui, infatti, da almeno due anni la zona settentrionale di Cabo Delgado, regione a maggioranza musulmana ricca di risorse naturali., è preda di continui raid da parte di terroristi islamici. L’ultimo episodio risale a una settimana fa, quando 16 persone sono rimaste uccise in un’imboscata a un camion su cui viaggiavano civili diretti a un mercato. Secondo fonti locali, l’assalto è avvenuto nel distretto di Macomia. A sparare sono stati «uomini armati», ma otto persone - fra cui tre militari – sono morte «bruciate» per l’incendio appiccato al mezzo dai terroristi.
Altre otto persone sono decedute per le ferite da colpi di arma da fuoco. Macomia è uno dei distretti più colpiti dall’ondata di attacchi che, nella provincia di Cabo Delgado, ha causato almeno 200 morti dall’ottobre di due anni fa. Solo il mese scorso vi sono stati 13 attacchi con 25 vittime, decine di feriti e centinaia di case date alle fiamme. Poco più di un anno fa, nella stessa provincia, era stata segnalata la decapitazione di dieci persone e le indagini si erano indirizzate verso al-Shabaab, un gruppo formatosi nel 2015 e senza legami noti con l’omonima formazione terroristica somala.
Come il gruppo somalo, anche i jihadisti mozambicani cercano di imporre una rigida versione della sharia, la legge islamica. I primi componenti del gruppo, chiamato anche «al-Sunna», erano seguaci di un predicatore estremista keniano ucciso nel 2012 e si stabilirono nel sud della Tanzania al confine col Mozambico, praticando una versione ultraconservatrice del wahhabismo sunnita. Al-Sunna sarebbe formata da cellule di 10-20 individui sparse sul territorio, per un totale di un migliaio di affiliati. I combattenti sarebbero giovani emarginati con scarsa conoscenza del Corano per lo più di etnia Kimwani, che da sempre si sente marginalizzata a favore di quella Makonde. «Il Paese sta cadendo vittima di questi attacchi, di cui dobbiamo capire le vere ragioni – ha sottolineato la scorsa settimana il presidente mozambicano Filipe Nyusi in una rara intervista sull’argomento –. La forze di sicurezza si stanno impegnando al massimo per comprendere le motivazioni dei ribelli e per capire di chi si tratta».
Secondo Nyusi, la religione potrebbe non essere l’unico motivo dietro gli attacchi: c’entrerebbero, invece, anche le risorse della regione, soprattutto i giacimenti di gas. E l’obiettivo di creare uno Stato indipendente, che comprendesse la regione di Cabo Delgado e il sud della Tanzania. Certo è che per la popolazione mozambicana, che a ottobre è chiamata a tornare al voto, la situazione è sempre di maggior pericolo, ma anche i contractor del colosso americano Anadarko sono stati attaccati almeno due volte. In questi due anni decine sono stati i miliziani fermati. Tra loro anche un sudafricano 60enne, Andre Mayer Hanekom, e i tanzaniani Chafim Mussa e Adamu Nhaungwa Yangue. In Sudafrica, dove vivono circa 1,5 milioni di musulmani ed è in aumento la retorica anti-sciita, hanno fatto scalpore lo scorso anno gli attacchi (con vittime) alle moschee nelle città di Malmesbury, vicino a Città del Capo, e di Verulam, alla periferia di Durban.
Nel primo caso ad agire era stato un somalo, ma la polizia non aveva accertato il movente del terrorismo. Nel secondo, invece, i fermati, che avevano anche piazzato ordigni esplosivi in altre zone della città, erano stati 19. In un loro covo erano stati trovati anche manuali per condurre attacchi terroristici, newsletter a favore del Daesh e bandiere dello stesso Daesh. Abbastanza per scuotere un Paese che, fino a quel momento, aveva guardato al terrorismo islamico come a qualcosa di apparentemente lontano.
Nordafrica
La radicalizzazione degli irriducibili algerini si è tradotta con la nascita, nel 2007, di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), attivo nel deserto. Con la nascita del Califfato, migliaia di jihadisti sono partiti da Tunisia e Algeria per unirsi al Daesh.
Egitto e Libia
L’adesione, nel 2014, di Ansar Bayt al-Maqdis al Daesh ha inaugurato una nuova stagione di violenza in Egitto che porta la firma di 'Wilaya del Sinai'. In Libia rimangono diverse sacche di jihadisti attorno alla città di Derna, nella Cirenaica, e nel Sud.
Africa Occidentale
Nel marzo 2015, il Daesh è riuscito a strappare il giuramento di fedeltà di Abubakar Shekau, leader dei nigeriani Boko Haram. Il gruppo conduce dal 2009 una feroce offensiva nel nordest nigeriano, in Camerun e Ciad.
Africa Subsahariana
Nel «Sahelistan» il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), filo-qaedista, è attivo nella zona della “triplice frontiera”, tra il Mali, il Niger e il Burkina Faso. Si fa strada anche “lo Stato islamico nel Grande Sahara', filo-Daesh, guidato da Adnan al-Sahrawi, già capo del Mujao.
Africa Orientale
Gli shabaab, guidati da Abu Ubaidah, hanno colpito più volte in Somalia e nel Kenya. Il gruppo è legato dal 2012 alla struttura mondiale di al-Qaeda, ma una partedi loro ha giurato nel 2016 fedeltà al Daesh sotto la guida di Abdul Qadir Mumin.
Africa Centrale
La zona era relativamente risparmiata dalla violenza jihadista, ma un segnale preoccupante è la nascita, due mesi fa, di una wilaya (provincia) del Daesh nell’Africa Centrale, con epicentro nella Repubblica democratica del Congo.
(A cura di Camille Eid)