«Via!, via!» Il cooperante olandese schizza lontano come una cavalletta, la Land Rover rimane abbandonata con le portiere aperte, i due camion della Ong di Den Haag incolonnati al di là della terra di nessuno, il ronzio fosco del drone che va a cercare il bersaglio si mescola con le cento voci di qua e di là del muro di quella regione fantasma che è la Striscia di Gaza, dove mai come oggi, settima giornata di guerra, le incursione dei bombardieri con la Stella di David si sono incrociate fino al calare delle tenebre con il lancio di razzi da parte di Hamas e della Jihad. «E questa dovrebbe essere la tregua annunciata?», dice il capocolonna che da sette ore aspetta invano di poter entrare per portare medicinali, plasma, attrezzature mediche, tutto quello che manca negli ospedali di Gaza, tutto quello che la crisi umanitaria che si va profilando chiederebbe con urgenza ma che il cannone di entrambe le parti per il momento vieta. Ma non c’è proprio nessuna aria di tregua nella mattina quasi afosa lungo le strade che separano Gaza dal mondo esterno. Nessuno lo vuol dire apertamente, ma si ha come la sensazione che invece di assopirsi il livello dello scontro si sia alzato. Dicono sia sempre così l’ultimo giorno di guerra. Ma davvero sarà l’ultimo? Difficile in questi momenti pensare a una tregua. Difficile immaginare che tacciano le armi quando da Erez (nel nord della Striscia) a Rafah (il lato sud che se Israele potesse blinderebbe per terra mare e cielo per i prossimi cento anni), passando per Khan Younes niente e nessuno è servito a impedire che due razzi di Hamas raggiungessero per la seconda volta la periferia di Gerusalemme, che l’aviazione israeliana martellasse le vie di Gaza City, che dal cielo piovessero volantini per invitare la popolazione a spostarsi in una zona “sicura” della città, mentre da quasi ventiquattro ore il centro medico Abu Taema di Khan Younes era rimasto senza elettricità e senz’acqua, il collegamento Internet evanescente, le linee telefoniche saltate e nella mattinata era stato bombardato l’ospedale di campo giordano a Gaza City. Dice Farrah, funzionaria della Palestinian Medical Relief Society: «Si ostinano a tenere chiusi i valichi. Il perché è ovvio: gli israeliani devono finire il “lavoro” prima di riaprirli. Così la situazione peggiora di ora in ora. Ma non si era parlato di tregua?» No, la tregua ancora non c’era, anzi. Da Gaza partiva un missile diretto a Tel Aviv: arrivava fino a Rishon le-Zion e colpiva in pieno un edificio. Quattro feriti per un tiro dall’alto potere simbolico, che faceva il paio con i due razzi arrivati in prossimità di Gerusalemme. A Be’er Sheva, nel sud della Striscia, un missile Fajr 5 colpiva un autobus abbandonato dai passeggeri solo da un paio di minuti. Strage sfiorata. Non così dall’altra parte, dove la strage è quasi sempre probabile. Il conto delle vittime a Gaza nel tardo pomeriggio arrivava a 127 morti e 900 feriti. A mezzogiorno Rafah, la porta sud della Striscia, baluginava davanti a noi come un miraggio nel deserto. Nella nube ocra sollevata dai bombardamenti si indovinava l’accanimento con cui l’artiglieria di Tsahal cercava di sigillare una volta per tutte le centinaia di cunicoli, di tunnel, di gallerie che come un sistema circolatorio fino a pochi giorni fa hanno portato armi, denaro, cibo, beni di prima e seconda necessità a quel denso lemming di palestinesi intrappolati da anni nell’enclave governata da Hamas. È da questo corridoio che verosimilmente sono arrivati i missili Fajr 5 di fabbricazione iraniana, da qui sono passati i soldi degli stipendi per gli oltre 36mila dipendenti pubblici di Gaza, da qui si sono infiltrati uomini, prigionieri, spie, emissari di tutte le jihad che costellano l’area della Mezzaluna Fertile, dal Mali al Sudan. «E proprio in Sudan – racconta compiaciuto il blogger Moshe Hatsor, mentre sorseggia il tè sul suo terrazzo a Gerusalemme – alla vigilia delle ostilità era stata bombardata una fabbrica per l’assemblaggio di armi destinate alle brigate Ezzedine al-Qassam. Non le sembra una curiosa coincidenza?» Senza dubbio. Tanto più uno dei leader della Jihad islamica, Ramadan Abdallah Shellah, ha ammesso di fronte ai microfoni di
al-Jazeera: «Le armi della resistenza oggi in Palestina, per fare fronte all’aggressione e all’arroganza israeliana, sono essenzialmente di origine iraniana o acquistate tramite un finanziamento iraniano».«E ora che l’Egitto di Morsi e dei Fratelli Musulmani è assai più benevolo nei confronti di Hamas di quanto non lo fosse il deposto Mubarak – insiste Hatsor –, che cosa farà Netanyahu? Un muro d’acciaio profondo cento metri? E davvero gli egiziani glielo lasceranno fare?» Scende la sera sull’insensatezza dei signori della guerra. Dicono che Hamas e la Jihad non siano completamente d’accordo sulla tregua. Dicono che Israele in realtà prepari ugualmente l’attacco di terra. Dicono tante parole, tranne l’unica che vorremmo sentire.