Se c’è un’immagine del deserto di umanità lasciato dall’Is è l’immagine di questo deserto laggiù. Dalla sommità della montagna del Sinjar, la valle è pura desolazione: ci vivevano migliaia di persone, poi, un anno fa, sono arrivati i jihadisti ed è iniziata la grande fuga. Dei cristiani. Degli sciiti. E degli yazidi, che hanno dovuto lasciare in poche ore le loro case a Sinjar, ma anche Snuny, Khobal, le fattorie sparse sulla piana, per trovare riparo qui. E che qui, su questo altopiano, sono rimasti. Tremila persone. Tremila sopravvissuti.Non c’è nulla. Poco cibo, poca acqua. Niente medicine. Non un dottore. Ai tempi dell’assedio, quando gli aiuti paracadutati dagli iracheni e dagli americani finivano sul lato sbagliato della montagna, la situazione era difficile. Oggi non va meglio. Povertà assoluta. L’altopiano è degli uomini rimasti a difenderla. E dei bambini. E degli anziani. Hanno preferito fermarsi qui, su questo massiccio alto oltre mille metri, dove il sole brucia la poca erba, il vento d’inverno è forte, anche se una parte della capitale Sinjal è stata liberata dai generali peshmerga: meglio vegliare sulla propria casa dall’alto piuttosto che scendere per vivere in un campo profughi. «Non è vero che l’Is ci ha preso solo un pezzo di terra. L’Is ci ha preso i nostri cari, e non possiamo vivere senza di loro, non vogliamo allontanarci da loro». Qaual è una guida spirituale yazida e nella piccola comunità di Yuseva è considerato una guida. Dietro di lui, i ragazzi raccolgono l’acqua canalizzata da una fonte tra le rocce in alto. Il “villaggio” è un piccolo agglomerato di tende strappate, capanne di fango, casupole di mattoni di terra. Ci vivono più o meno un centinaio di sfollati. Salire fino a qui è dura. Scendere altrettanto: non ci sono mezzi per percorrere i sentieri impervi. E comunque, scendere per fare cosa? Nessuno, qui, ha soldi. Le famiglie hanno in media cinque figli, e vivono con quei pochi oggetti che sono riusciti a portare con sé un anno fa. Nessuno spera di poter tornare a valle a cercare gli oggetti di valore, o le macchine o i mezzi agricoli: l’Is ha portato via o bruciato o distrutto tutto. «Più in alto, il Pkk ha allestito una scuola – continua la guida yazida –. Ma noi non vogliamo che la politica entri nell’educazione, noi non stiamo con nessuno, che sia esercito curdo o combattenti curdi della Turchia. Non ce li mandiamo i nostri figli». Le donne cercano di garantire il meglio possibile ai bambini. Riordinano le tende. Le abbelliscono con stoffe colorate. E ricordano con nostalgia la loro casa. L’ospitalità è sacra, e al visitatore non fanno mai mancare il the. «I miliziani vestiti di nero ci hanno attaccato dalle 10 fino alle 2 di notte, l’anno scorso. Abbiamo messo le nostre cose in un sacco e siamo saliti qui». L’anziana donna piange. È quasi cieca. Siede su pezzo di legno accanto ai nipotini e alla nipote grande, che rimane dritta sulla soglia di “casa”. Sua nuora interviene: «Il figlio l’ha messa su una carretta. Ha ottanta anni, e durante la fuga è caduta più volte. Ma è arrivata fino a qui». «Nei primi giorni – continua –, abbiamo mangiato l’erba per sopravvivere. Poi sono arrivati i primi pacchi paracadutati dagli americani: un po’ di acqua, cibo, qualche vestito. Continuiamo ad avere paura, quella non passerà più». Uno dei suoi figli più grandi, avrà più o meno 13 anni, arriva a cavallo. Scende con piglio deciso e modi da grande. «Quella notte, mentre andavo via, un gruppo dietro di me è stato preso. Li ho visti, quelli dell’Is, mentre ammazzavano ragazzi come me. Poi ho camminato per cinque ore, fino a qui. Non ricordo nient’altro: quelli che uccidevano, io che camminavo. Nient’altro».