La speranza, a volte, è un drappo azzurro che torna a sventolare sulle le rovine. La bandiera dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) adesso si vede da tutta Mogadiscio. Pochi giorni fa l’italiana Alessandra Morelli, che guida l’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite, è salita sul tetto dei nuovi uffici sapendo che quella non sarebbe stata una semplice formalità. «Poco dopo la gente è venuta a vedere se davvero l’Acnur era tornata stabilmente nella capitale somala. Da allora i nostri uffici non hanno mai smesso di ricevere somali». Tre anni fa le Nazioni Unite avevano evacuato il personale per ragioni di sicurezza.Morelli da più di vent’anni frequenta l’inferno. Dall’ex Jugoslavia allo Sri-Lanka, dalle crisi africane all’Afghanistan. Da Kabul è stata spedita a Mogadiscio, per ereditare da un altro italiano, Bruno Geddo, il posto più scomodo: rappresentante dell’Alto commissariato per i rifugiati. Nella Somalia che da 23 anni non conosce un solo giorno di tregua, vuol dire 1,5 milioni di sfollati interni e un milione di rifugiati nei giganteschi campi di Kenya, Etiopia, Eritrea, Gibuti e Yemen, nella penisola arabica, dove arrivano dopo una traversata su gommoni sgangherati.
Quali sono le condizioni generali del Paese?Abbiamo superato la fase più grave della crisi alimentare che, oltre alle vittime della guerra, ha prodotto centinaia di migliaia di nuovi profughi e ucciso 260mila persone. Ci sono territori dove il livello di sicurezza va crescendo, come dimostrano i primi rientri spontanei dei profughi nei villaggi d’origine. Ma il governo non controlla ancora il cento per cento del Paese. Nonostante questo bisogna saper sfruttare il momento.
Qual è la principale aspettativa dalla Conferenza di Londra?La gente chiede sicurezza. È questa la precondizione per poter trovare una soluzione sia per alleggerire la pressione dei profughi sui Paesi limitrofi, sia per ottenere il massimo successo di qualsiasi piano di stabilizzazione.
Si sente ottimista?È una speranza flebile, ma negli ultimi vent’anni non si era mai registrato un periodo come questo. La Somalia ha adesso l’occasione di avviare un percorso, accidentato e tutto in salita, per riprendere in mano il proprio destino. C’è un governo aperto alla collaborazione. Ci sono alcune aree più stabili di altre e questo può fare da volano per l’economia di base.
Quanto pesa la presenza dei guerriglieri islamisti?Il gruppo al-shabaab non è più dislocato massicciamente, anche se occorre stare molto attenti, dato che di tanto in tanto tornano a farsi sentire, com’è accaduto con l’autobomba di Mogadiscio la scorsa settimana. Nella capitale e nelle regioni del centro-sud gli shabaab, per quanto siano ancora una minaccia seria, non sono più così presenti.
È ancora vivo il legame con l’Italia?Qui mi chiamano tutti «sorella italiana». Il desiderio dei somali di vedere l’Italia tra i protagonisti del progresso politico, sociale, economico e culturale è davvero molto sentito.
Osservate già i primi risultati della ritrovata cooperazione con le autorità locali?La nostra è un’analisi basata sulla realtà. Grazie agli aiuti internazionali e ai progetti di rilancio dell’economia locale, specialmente delle attività rurali, il numero complessivo dei profughi all’estero è sceso da 1,4 a circa 1,1 milione, mentre i rifugiati interni cominciano a rientrare, lentamente, nelle loro regioni. Dalle richieste che la popolazione ci esprime si capisce che non desiderano assistenza passiva, ma vorrebbero essere aiutati a ripartire con le proprie gambe: dagli allevamenti ai commerci. Questa mentalità è propedeutica a qualsiasi processo di rinascita. Non saper cogliere questo slancio vorrebbe dire non solo rinunciare a stabilizzare la Somalia e l’intero Corno d’Africa, ma condannare il Paese a un futuro ancora più incerto del già drammatico passato.