L’Honduras non figura, al momento, nella lista dei Paesi in guerra. Come pure El Salvador e il Guatemala. Nel cosiddetto “Triangulo Norte” (Triangolo Nord) dell’America centrale l’epoca dei conflitti civili si è conclusa negli anni Novanta. «Ne è sicura?», domanda José Guadalupe Ruelas García. «Guardi le finestre», aggiunge. A Tegucigalpa – dove l’attivista dirige l’Ong Casa Alianza, impegnata nella difesa dell’infanzia – le case hanno tavole di legno al posto dei vetri. Perché questi si infrangono troppo spesso per le sparatorie quotidiane. Con 79 omicidi ogni 100mila abitanti, la nazione si è conquistata il macabro primato mondiale: è il cuore nero della regione più violenta del pianeta. Il sindaco della vicina San Pedro da Sula ha incentrato la campagna elettorale sulla promessa della “bara gratuita”. Dato che le spese per i funerali divorano i magri bilanci, le famiglie sono corse in massa a votarlo. La morte è una presenza costante nelle strade honduregne. Tutti si sentono a rischio. «I più esposti sono, però, i minori. Solo a maggio, ne sono stati assassinati 102 – afferma Ruelas –. Magari è vero: non c’è una guerra, perché un conflitto implica due parti contrapposte. Qua c’è un caotico “tutti contro tutti”. Il cui risultato è una strage sistematica dell’infanzia». Scandisce le ultime parole con estrema lentezza Ruelas. È questa «strage sistematica dell’infanzia» il motore dell’impressionante esodo dei bambini non accompagnati verso gli Stati Uniti. Già 52mila, dallo scorso ottobre, sono stati fermati dopo aver attraversato “La Línea”, il confine. Entro quattro mesi potrebbero essere 70mila, alcune Ong parlano di 90. «Da gennaio, dall’Honduras sono partiti 10mila minori. Alla fine dell’anno saranno almeno il doppio. Nel 2013 erano stati 8mila – continua Ruelas –. Ci sono adolescenti ma anche bimbi piccoli, di 8-10 anni. Ogni settimana, dal Messico – punto di passaggio obbligatorio –, sono rimpatriati 350 ragazzini. Dagli Usa arrivano ancora in pochi perché l’iter è più lungo». Chi torna racconta di sequestri da parte dei narcos, pestaggi, estorsioni. Di amichetti rivenduti nel mercato della pedofilia o degli organi. Le violenze nel viaggio verso l’El Dorado sono all’ordine del giorno. I migranti – perfino quelli baby – ne sono coscienti. Eppure accettano il rischio. «Perché fuggire è l’unica speranza di salvarsi – aggiunge Ruelas –. Dal venire uccisi o arruolati con la forza in una delle centinaia di bande che ha assunto il controllo del territorio». Grazie alle armi e ai ricevuti dai cartelli della droga messicani, per cui lavorano. Questi ultimi hanno ormai trasferito le basi in Centramerica per eludere la pressione delle autorità. Il “Triangulo Norte” è il rifugio ideale: le istituzioni sono deboli e corrotte, la povertà è diffusa. Un milione di bimbi non va a scuola. Ottomila vivono per la strada. «Facile per le bande reclutarli. Li utilizzano come “carne di cannone”, dati i livelli di violenza il “turn over” criminale è continuo», racconta l’attivista. Spesso sono i genitori o i nonni, dato che madre e padre sono già emigrati, a spingerli a “andare al Nord”. Soprattutto le adolescenti che rischiano di essere trasformate in “novias comunitarias” (schiave sessuali) della banda. Tante famiglie vendono tutto ciò che hanno per pagare il “coyote” (trafficanti che “aiutano” a passare il confine). «Sempre di più non ce la fanno e partono senza». È un Paese in fuga l’Honduras: nel 2013 17mila famiglie hanno dovuto trasferirsi per gli scontri. Ogni giorno, migrano tra i 100 e i 300 adulti. A questi si aggiungono, in media, 55 minori soli. La metà, incredibilmente, arriva. Il resto si “perde” nel percorso. Qualche giorno fa, a Falfurrias, in Texas, gli antropologi forensi hanno scoperto varie fosse comune con decine e decine di corpi di migranti. Tra loro, anche bimbi.