Nessuno avrebbe mai immaginato che perfino a Zamalek – l’esclusivo distretto residenziale aggrappato all’oblunga isola di Gezira in quell’ansa del Nilo che separa le due anime del Cairo, quella popolare e quella degli affari – la gente cominciasse a circolare con aria circospetta, neanche fossimo a Manial, il quartiere eletto dai Fratelli musulmani, epicentro della reazione dei sostenitori di Mohammed Morsi. Ma la geografia del Cairo cambia in fretta, il 2011 è un ricordo remoto.Come raccontare il caos, oggi? Gli ingredienti in questa bruciante estate egiziana ci sono tutti. «Andare in piazza – dice Sharif Taha, membro del comitato centrale del partito salafita al-Nour – produce solo un bagno di sangue. Noi non andremo a manifestare con i Fratelli musulmani di fronte alla sede della Guardia repubblicana ma non parteciperemo ai colloqui. Abbiamo chiesto un governo di unità che rappresenti tutte le forze politiche, ma la scelta probabile di Mohammed el-Baradei come vice-presidente e di Ziad Bahaa el-Din come premier conferma che i laici vogliono emarginare le altre forze politiche». Questo anche se, formalmente, auspicano «un dialogo nazionale di riconciliazione».Cinquantuno morti – 77 secondo la Fratellanza musulmana – dopo l’eccidio di ieri mattina, pesano come macigni sul futuro dell’Egitto. I Fratelli musulmani, il cui destino politico sembra sempre più legato alla sorte del deposto presidente Morsi, annunciano resistenza a oltranza. Fazioni radicali si armano e preannunciano una stagione di violenza. Esattamente il contrario di ciò che le cancellerie occidentali – Stati Uniti in testa – avevano immaginato quando appoggiarono i Fratelli musulmani nella convinzione che dessero vita a un governo islamico moderato (finanziato peraltro generosamente dal Qatar). Ed è questa la miccia a tempo che sta bruciando all’interno di quel sommovimento iniziato dieci giorni fa ad opera dei
Tamarod del Cairo e di Alessandria e che non possiamo chiamare rivoluzione e forse nemmeno golpe: la radicalizzazione dei movimenti di ispirazione islamica. Salafiti e Fratelli musulmani – ancorché formalmente opposti nello schieramento politico – si trovano dalla stessa parte nel confronto sempre più teso con i militari che hanno preso il potere. Due piazze oramai si fronteggiano: Tahrir, con le centinaia di migliaia di cittadini che hanno fatto cadere il presidente Morsi e la piazza caldissima dei Fratelli e dei salafiti, poco distante dai palazzi del governo e dei militari. Gli stessi Fratelli sono incerti a quale delle due sirene storiche del movimento dar credito: se all’ideologo e fondatore Hassan al-Banna, uomo realista e prudente, ucciso nel 1949 dall’allora giovane ufficiale Anwar Sadat oppure a Said Qotb, giustiziato da Nasser nel 1966, uomo d’azione e di visione radicale del conflitto fra Stato e religione.Incerti fra queste due anime – fra perseverare cioè in un moderatismo di intonazione coranica in qualche modo simile all’Akp turco, oppure accostarsi sempre più alla faccia jihadista del movimento, che nelle ultime ore rischia di prendere sempre più piede – i Fratelli musulmani esitano. Non a caso Ahmed al-Tayeb, rettore della celebratissima università cairota di al-Azhar, la massima istituzione dell’islam sunnita, esorta gli egiziani alla riconciliazione nazionale «prima che il Paese precipiti nella guerra civile». Sulla stessa lunghezza d’onda il vicepresidente designato El-Baradei (un
liberal dallo scarso seguito elettorale ma dalla grande considerazione internazionale) propone una drastica modernizzazione della bilancia dei poteri della fragilissima democrazia egiziana, offrendo più poteri al Parlamento e più diritti ai cittadini.«Siamo ancora pronti alla riconciliazione – ribatte Gehad el-Haddad, portavoce dei Fratelli –: liberate Morsi e processate i golpisti per alto tradimento».Come gettare benzina sul fuoco.