Una soluzione politica che includa tutte le parti in causa in Libia è l’unica via d’uscita praticabile. L’inferno in cui è piombata Sirte nell’ultima settimana dà l’idea non tanto della potenza militare dei jihadisti affiliati allo Stato islamico (Is) quanto dell’impotenza di Tripoli e Tobruk, divise come sono, nel contrastarli. Annunciava il primo ministro libico legittimo, Abdullah al-Thani, nell’ottobre del 2014 da Khartoum, in Sudan: «Sono disponibile a trattare con tutti. Naturalmente con quelli che accetteranno di fare concessioni». Il contesto di oggi, nelle sue dinamiche principali, diverge di poco da quello dello scorso autunno. Armate e sovvenzionate da illustri padrini stranieri, le svariate milizie, che fanno capo a due poli politici, potrebbero perpetuare il tragico equilibrio raggiunto ancora per anni. Il caso siriano docet. Nessuna delle parti prevale, nessuna cede. Un terzo incomodo, però, sta scuotendo le due fortezze, drenando scontenti dai campi esistenti. Intendiamoci, Is in Libia non sta ottenendo i risultati raggiunti in Medio Oriente, e per rapidità e per profondità di penetrazione. La resistenza opposta dagli islamisti misuratini ai “colleghi” passati all’Is è emblematica: il fenomeno è percepito come estraneo e quindi da molti rigettato. Anche nel “mini-Califfato” di Derna non mancano i contrasti fra gruppi radicali. E a Sirte non è semplice per Is affermarsi. Tuttavia, il “brand” Stato islamico, con il suo fascino oscuro, potrebbe avvantaggiarsi dello stallo libico se questo dovesse protrarsi ancora a lungo. Per ora, il conflitto principale è soprattutto “politico”. L’esecutivo riconosciuto internazionalmente, espulso da Tripoli insieme al Parlamento – e riparato a Tobruk, in Cirenaica – nell’agosto del 2014 dalle forze raccolte nella coalizione Fajr Libya-Alba libica (islamiste), può contare sul supporto di Arabia Saudita ed Egitto, cioè della dirigenza della Lega Araba. Lamenta di non poter combattere i nemici adeguatamente perché azzoppato dall’embargo sulle armi in vigore dal 2011, ma ha un braccio armato, guidato dal generale Haftar. Intimo dell’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il generale potrebbe rivelarsi pericoloso in futuro, ma per ora è di prezioso aiuto. Attentati, defezioni, un’autorevolezza limitata alla Cirenaica stanno logorando il premier al-Thani, a sorpresa dimissionario una settimana fa in diretta televisiva. Un cedimento poi rientrato, ma indicatore di uno sfinimento anche personale. Tobruk ha firmato l’accordo quadro delle Nazioni Unite lo scorso 12 luglio: esso prevede la formazione di un governo di unità nazionale con un premier e due vice dotati di effettivi poteri, in carica per un anno; il riconoscimento del Parlamento in esilio in Cirenaica e non di quello formato a Tripoli (Congresso nazionale generale); la fine dei combattimenti. La fazione di Misurata, che sostiene Alba libica, ha aderito all’intesa insieme ad altri gruppi minori, ma Tripoli no: non può accettare lo scioglimento del proprio Parlamento. Ed è proprio un maggiore credito politico che il “premier-ombra” di Tripoli, Khalifa al-Ghweil, il cui paladino oltreconfine è il Qatar, sta negoziando in queste ore. È auspicabile che lo ottenga, se si vuole che una cornice libica prenda forma e duri oltre la torrida estate nordafricana.