mercoledì 19 settembre 2012
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​A fianco delle mancate demarcazioni ufficiali, dietro gli opposti nazionalismi, nelle contese che interessano alcuni arcipelaghi asiatici stanno oggi in massima parte opportunità politiche, strategiche e la corsa alle materie prime. Il Giappone guarda alle prossime chiamate alle urne e a un elettorato disilluso e preoccupato per il futuro nucleare del Paese, la ricostruzione post-tsunami e la crisi economica globale. Pechino avanza verso un congresso del suo partito-guida che a ottobre designerà la leadership interna per i prossimi dieci anni e di conseguenza – nella primavera prossima – i massimi livelli dello Stato. Taiwan vive un periodo elettorale che inevitabilmente la riporterà sulla scelta se allinearsi a Pechino o a rimarcare la propria indipendenza rischiando lo scontro. La tentazione di distogliere l’attenzione dai problemi interni è quindi forte. A questo si aggiunge che, con una recrudescenza dal 2010, le Senkaku/Diaoyu sono anche diventate un richiamo per i rispettivi nazionalismi collegati a gruppi economici con precisi interessi sui diritti di prospezione e di sfruttamento di una regione marittima di cui è certa la pescosità ma potenzialmente ricca anche di gas e di idrocarburi. Una manna potenziale per Paesi affamati di risorse, una miccia accesa in un’area ad alta tensione. Poco più a Est, infatti a metà strada tra il Giappone e la penisola coreana, gli scogli delle Dokdo/Takeshima sono al centro di un contenzioso dai toni aspri tra Tokyo e Seoul riacceso il 10 agosto dallo sbarco del presidente sudcoreano uscente Lee Myung-bak su roccioni desolati che nella storia hanno rappresentato più un pericolo per la navigazione che una risorsa ma che da tempo sono visti dalla Corea del Sud come un tassello importante nelle rivendicazioni post-belliche verso l’antico dominatore giapponese. Molto più a Sud, il Mar Cinese meridionale vede a confronto ancora il gigante cinese con più deboli non non per questo più remissivi Paesi rivieraschi: ancora Taiwan, ma anche Malaysia, Brunei e, soprattutto, Filippine e Vietnam. L’ampio specchio di mare, che include le isole Spratly, è attraversato da importanti rotte marittime, ma i fondali custodiscono anche grandi giacimenti di petrolio e di gas naturale. Qui, come più a settentrione, la presenza delle flotte pescherecce cinesi si è fatta ingombrante, sostenuta dalla pretesa di Pechino di includere nel suo territorio l’80 per cento dei “mari di casa", disconoscendo il Diritto marittimo che indica la competenza economica speciale entro le 200 miglia dal limite della piattaforma continentale di ciascun Paese.  Possedere uno scoglio o un banco di sabbia sommerso dalle maree al centro di rotte trafficate e strategicamente sensibili consentirebbe a Pechino di affermare le sue pretese.
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