Parigi, Berlino, Londra. Dopo gli Stati Uniti, anche le tre cancellerie europee hanno deciso di chiudere le proprie ambasciate a Sanaa. Mentre quella italiana resterà aperta anche se, spiegano alla Farnesina, sono state adottate misure precauzionali importanti. Tutto questo perché lo Yemen sta emergendo come Paese «covo» della minaccia globale denunciata due giorni fa dal Dipartimento di Stato americano. Troppi i rischi di possibili attacchi e rapimenti.Se è vero che l’allerta interessa una lista di 21 Stati considerati a rischio, è altrettanto vero che è lo Yemen l’«osservato speciale». Un teatro su cui gli Stati Uniti si stanno muovendo con un’intensa campagna contro il terrorismo.Nell’ultimo biennio, i miliziani vicini ad al-Qaeda hanno conquistato ampie aree strategiche del Paese dilagando da Nord verso Sud. E mostrato segnali di rinnovata vitalità ideologica. Solo una settimana fa, i servizi segreti yemeniti hanno preso atto della presenza di 20 motovedette guidate da qaedisti a pochi chilometri dalla costa meridionale del Paese. Ora però gli jihadisti della penisola araba guardano oltre: dalla destituzione del presidente egiziano Mohammed Morsi, il 3 luglio scorso, i servizi del Cairo hanno bloccato un’ondata di sospetti in arrivo dallo Yemen, probabili miliziani pronti a schierarsi con i Fratelli musulmani spodestati. Faticosamente, lo Yemen sta cercando di voltare pagina dopo la deposizione del presidente-dittatore Ali Abdullah Saleh (destituito il 25 febbraio 2012, quando fu costretto alle dimissioni da una rivolta popolare). Saleh sarà presto processato per una delle tante stragi di manifestanti compiute nel marzo del 2011 dalle sue forze di sicurezza: un parziale successo per i parenti delle vittime, indignati per il permanere di affiliati del clan presidenziale in tutti gli organismi di potere.La sfida riformatrice si concentra nella Conferenza per il Dialogo nazionale (avviata il 18 marzo), una fase interlocutoria aperta a diverse sigle politiche. Sotto la guida del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi (vice-presidente di Saleh per 17 anni), i partecipanti al Dialogo (565) lavorano sui grandi capitoli della Costituzione, da emendare per favorire un processo di riconciliazione nazionale. Così come caldeggiato dai Paesi del consiglio di cooperazione del Golfo, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dall’Unione Europea. Il biennio di interregno del governo transitorio yemenita terminerà con elezioni legislative e presidenziali nel febbraio 2014. Sull’efficacia dell’esperimento, tentativo di prevenire una guerra civile, pesano però ingombranti incognite. Innanzitutto quella del Sud separatista, acquisito con la forza nel 1994. Lo scorso 7 luglio, anniversario dell’annessione, migliaia di persone hanno manifestato chiedendo la secessione dal Nord. Una parte delle fazioni meridionali ha accettato di partecipare al Dialogo, ma le più agguerrite ne sono rimaste fuori. Da qui anche la seconda incognita: quale effettiva rappresentatività ha la Conferenza in corso? Dei 565 membri, 112 sono quelli provenienti dall’ex partito di maggioranza, il Partito del Congresso generale del popolo, ancora formalmente presieduto da Saleh. Un’ombra lunga che inficia l’intero processo. Permangono le diffidenze reciproche fra sciiti huthi Zaidi, minoranza settentrionale in aperto conflitto con Sanaa dal 2004, e sunniti salafiti. Entrambi i gruppi sono presenti nell’Assemblea, ma con opposti obiettivi. I salafiti trovano ospitalità all’interno di al-Islah (La riforma), partito islamista guidato da Mohammed al-Yumadi e, spritualmente, dallo sheikh Hamid al-Ahmar. Movimento nato nel 2005 per iniziativa della Fratellanza musulmana yemenita e, si vocifera, dei servizi di Doha, ha amicizie pericolose fra i qaedisti. I vertici di al-Islah, peraltro, hanno espresso pieno sostegno ai Fratelli egiziani, «depredati del legittimo governo del Paese». Nel medesimo partito, tuttavia, militano figure come Tawakkul Karman, giornalista, attivista politica, Nobel per la Pace nel 2011. Intellettuali, personaggi della società civile e religiosi hanno poi la funzione di cuscinetto all’interno del simposio per il Dialogo. Pesante anche l’incognita militare: è in atto il ridimensionamento dei poteri dell’esercito, in particolare del ruolo dei fedelissimi di Saleh. Fra tutti, ne ha pagato il prezzo Ahmad Ali Saleh, figlio dell’ex rais: colui che guidava la guardia Repubblicana, élite militare abolita nel dicembre del 2012, è stato inviato negli Emirati arabi uniti come diplomatico. Promosso invece Ali Mohssen, suo rivale, che ora è consigliere presidenziale per Sicurezza e Difesa. Ma la dirigenza militare silurata potrebbe non accettare in silenzio di essere estromessa, scegliendo di soffiare sull’instabilità, generata appunto non solo dalle spinte centrifughe, ma anche da al-Qaeda nella penisola araba (Aqap). In termini economici, i sabotaggi agli oleodotti yemeniti firmati dall’estremismo sunnita sono costati a Sanaa un miliardo di dollari in meno a fine 2012 rispetto al dicembre 2011. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), dall’inizio del 2013, l’export di greggio è crollato del 40%. Nelle casse di tutti i separatisti si sospetta che Teheran riversi miliardi di dollari in funzione anti-saudita e qatariota. Lo Yemen è considerato da sempre la “pancia molle della penisola arabica”. In un futuro ormai prossimo, insomma, Washington potrebbe essere costretta a sotterrare l’ascia di guerra con Teheran per arginare le aspirazioni del salafismo armato.