giovedì 18 dicembre 2014
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«Todos somos americanos». E da oggi Cuba e gli Stati Uniti si guarderanno finalmente in faccia. Il bloqueo verrà rimosso, riapriranno le ambasciate, già si scambiano prigionieri e spie, i turisti americani potranno andare all’Avana, le carte di credito Usa funzioneranno anche nella Cuba dei fratelli Castro, Internet diventerà più maneggevole e libero, le rimesse degli esuli di Miami verso i confratelli dell’isola quadruplicheranno, e soprattutto Cuba verrà depennata dalla lista degli Stati canaglia che sponsorizzano il terrorismo internazionale. Questa data, il 17 dicembre, diventerà un simbolo. Ma insieme alla gioia scalpitano nel cuore molte domande, una soprattutto: quando un muro cade, quando si spegne un conflitto che teneva separati due popoli, quando dalla reciproca diffidenza e dalla sordità umanitaria si sceglie finalmente il dialogo vien da chiedersi perché ci sia voluto mezzo secolo per imboccare l’unica strada davvero percorribile.  A sorpresa, Barack Obama – con un guizzo di intelligente strategia politica che farà dimenticare ben presto la fioca presidenza degli ultimi due anni per consegnarlo di diritto alla Storia – riconosce che cinquant’anni di isolazionismo non hanno portato a nulla e che l’embargo è sostanzialmente fallito. Ma se Obama ha colto il mondo di sorpresa, anche Cuba – mercé una paziente ma tenace opera di persuasione e di mediazione da parte della Santa Sede – lo ha fatto. E lo ha fatto alla sua maniera, con quel tempo lento, esasperato, quasi impercettibile nel suo scorrere che ha segnato l’intera parabola del Líder Máximo.  Lente, lentissime le piccole trasformazioni dell’isola prigioniera dell’embargo americano e insieme del proprio irriducibile orgoglio, da venticinque anni orfana dell’abbraccio generoso dell’Unione Sovietica e quindi gemellata per necessità più economiche che ideologiche con il Venezuela di Hugo Chavez, amica dei cinesi ma con un occhio semiaperto verso l’America, separata da un braccio di mare dove centinaia di balseros sono periti nel sogno impossibile di raggiungerla, mentre altre centinaia stavano serrati nelle carceri speciali di Fidel, e molti di loro vi hanno perduto la vita.  Oggi formalmente è Raúl a comandare. Raúl che già all’alba del 2007 – quando il fratello lasciava le redini del potere – lanciava timidi segnali al resto del mondo. Cuba – faceva capire – non poteva più essere una fortezza di poveri orgogliosi, voleva essere una nazione come le altre. Si pensava ciò avvenisse di lì a breve, con il Líder Máximo ammalato, infermo, forse moribondo, gli si contavano i giorni, le ore che mancavano alla fine: e invece eccolo ancora lì, padrone di quel tempo lento che solo in quello spicchio di mondo caraibico ha un suo senso e una sua ragione. E a suo modo sembra quasi giusto che Fidel sia ancora fra noi, a rimirare la fine di una parabola durata 55 anni e divenuta da almeno venti un monumento all’irragionevole caparbietà di un vecchio patriarca incapace di uscire dal proprio mito. Non facciamoci troppe illusioni. Il percorso verso la normalizzazione dei rapporti fra Stati Uniti e Cuba sarà più tortuoso e meno semplice di come lo raffigurano le parole. Parole stringate, per ora, come quelle di “Granma”, l’organo ufficiale del partito comunista cubano, che si limita ad annunciare la ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti. Ma ci sono altre parole, più dense di significato, più promettenti, più incoraggianti. «Siamo tutti americani», ha detto Obama, con lo stesso spirito con cui Kennedy pronunciò il famoso «Ich bin Berliner». Ma la risposta di Raúl non è stata da meno: «Debemos aprender el arte de convivir, de forma civilizada, con nuestras diferencias ». Sono frasi, entrambe, che frantumano i muri e aprono i cuori.
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