venerdì 10 ottobre 2014
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«La presenza di ebola si legge fin dai primi passi fuori dall’aeromobile, accolti da acqua clorinata per lavarsi le mani, materiale informativo sull’infezione, check point sanitari appena dopo i controlli doganali. La macchina della prevenzione al primo impatto pare ben rodata, funzionante, ma resta nell’aria una sensazione d’attesa, di timore e incertezza». Sono le prime parole di Matteo Bottecchia, appena arrivato in Sierra Leone insieme a Giovanni Putoto. Entrambi di origine padovana, i due faranno parte del team di Medici con l’Africa Cuamm che sta fronteggiando l’epidemia di ebola nel distretto di Pujehun, nel sud del Paese. «L’epidemia di ebola ha sequestrato le vite e le menti della gente della Sierra Leone – sottolinea Putoto, responsabile programmazione Cuamm –. I casi di ebola aumentano anche se in uno stato di perfetta equità. Non ci sono disuguaglianze sociali, di genere o di generazione in questa malattia. Le vittime sono lo specchio dell’umanità di sempre: uomini e donne, bambini e anziani, laici e chierici, ricchi e poveri, contadini o abitanti delle città. In una dimensione esistenziale che non è più la stessa di prima, tutti indistintamente cercano un segno di speranza, un segno positivo, una prospettiva semplice: tornare ad una vita normale, dignitosa, pacificata con la natura». La Sierra Leone è uno dei Paesi più colpiti dall’epidemia, con circa 900 vittime. Nell’ospedale e nel distretto di Pujehun, uno dei più isolati, popolosi e poveri del Paese, oltre a Clara Frasson, assistente sanitaria capo progetto di Medici con l’Africa Cuamm in Sierra Leone, sul posto sono operativi un chirurgo, un’ostetrica e un logista che coordinano centinaia di operatori locali. «L’infezione ha trovato una breccia tra le ferite di un Paese sovrastato da problemi profondi, con un sistema sanitario fragile e impreparato ad un compito così grande come combattere quest’epidemia senza precedenti – aggiunge Bottecchia –. Sono donne e uomini forti e motivati quelli che stanno portando avanti la quotidiana battaglia contro il virus, ma ogni giorno si confrontano con enormi difficoltà tecniche, specialmente nelle aree più periferiche come Pujehun». In queste zone, spiegano i volontari, le vie di collegamento tra una miriade di piccoli centri sparsi sul territorio sono al limite della praticabilità, e il materiale di protezione e trattamento per il Centro di Salute di Zimmi, il più vicino all’attuale focolaio d’ebola, arriva solo attraversando il fiume Moa a bordo di una barca a remi. «Sembra una lotta impari, quella tra la rapidità di diffusione del virus e la lentezza a cui si è costretti anche per fornire servizi sanitari di base – fa notare Bottecchia – . E il grande rischio è che l’apparente insormontabilità degli ostacoli porti rassegnazione, ovvero un’altra porta aperta per ebola». I volontari sono però determinati a non mollare. «Il lavoro è molto e faticoso – conclude Putoto –: pazienti da assistere in modo professionale e umano, personale sanitario da affiancare nelle sfide quotidiane, comunità impaurite da incoraggiare. Una speranza da costruire passo dopo passo, sfida dopo sfida, con loro».
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