C’è l’emergenza umanitaria, quella di assicurare un tetto e del cibo a chi scappa dalla guerra. Ma c’è anche un’altra urgenza, quella di evitare che una generazione vada perduta. Che resti senza alcuna istruzione o non completi i cicli iniziati in patria. Il problema dei bambini rifugiati è anche questo. «Come Avsi cerchiamo di dare una riposta integrata a tutti i due volti del dramma – spiega Chiara Nava, 27 anni, coordinatrice dei progetti di assistenza in Libano e in Giordania –. Abbiamo iniziato nel 2012 fornendo coperte, stufe e cherosene per il riscaldamento di chi arrivava. Poi dal 2013 abbiamo avviato un progetto più complesso che prevede da un lato l’erogazione di 70 euro al mese per 4 mesi per favorire l’affitto di abitazioni da parte dei rifugiati, dall’altro assistenza a tutto tondo e soprattutto scuola e doposcuola per i bimbi». Accanto ai bisogni primari, infatti, c’è quello di assicurare l’istruzione a una popolazione, quella siriana, alla quale già prima della guerra non veniva offerta in maniera adeguata. «Il governo giordano sta cercando di farsi carico anche di questo, ma non è semplice – aggiunge Simon Suweis, responsabile dei progetti in Giordania assieme a Riccardo Dalla Costa –. Quando abbiamo iniziato un corso con alcuni ragazzi che venivano dai sobborghi di Damasco, sono voluti venire anche i genitori, praticamente analfabeti.Da un lato c’è un bisogno educativo enorme, dall’altro occorre cercare di evitare che i bambini cerchino di lavorare già a 10-12 anni. Altrimenti rischiamo davvero di avere una generazione perduta».