Ho il cosiddetto 'pollice nero', non ho memoria di piante che, affidate alle mie cure, siano sopravvissute più di qualche giorno. In compenso le lascio in casa morte, anche per settimane, forse nell’inconscia speranza che possano magicamente riprendere vita. Di contro, mia mamma è capace di far risuscitare anche un bastone secco. Da qualche giorno 'frulla' nella mia testa la questione delle piante, non perché improvvisamente io sia stata investita dal sacro fuoco del giardinaggio, quanto perché la pandemia che sembra non finire mai, come un tunnel del quale non si intravvede la fine, sta fiaccando la resistenza di molti, per non dire di tutti e in particolare dei ragazzi, privati a lungo della scuola in presenza, dei ritmi ordinari della socialità, che stanno cedendo ad uno scoramento che sconfina nella depressione. Cosa c’entrano i fiori e le piante? C’entrano. A Natale con un mio amico abbiamo regalato a Filippo di otto anni, un kit che comprendeva semi da piantare, un po’ di terra e piccoli vasi. Il bimbo ne è stato felicissimo, la mamma ci ha detto che lui adora fare giardinaggio.
Qualche tempo dopo lei mi manda la foto dei vasetti con i germogli che spuntavano: i semi stavano facendo il loro dovere e nuove piante si accingevano ad ornare la terrazza della casa di Filippo. Non nascondo che ne sono rimasta sorpresa, nel mentre pensavo che in mano mia, i semi sarebbero bell’e morti. Dopo Filippo, incrocio la passione per il giardinaggio di altre bambine: Caterina di nove anni, Benedetta di sette e Margherita di quattro.
Le vedo in uno stato whatsapp della madre intente a piantar bulbi in alcuni vasi. La madre commenta la foto con: aspettando la primavera. La foto mi capita sotto gli occhi in giorni difficilissimi: la mia Perugia, in controtendenza con il resto d’Italia ha una curva dei contagi da far tremare i polsi, l’ospedale del capoluogo è al collasso, vengono emanate misure più restrittive rispetto al territorio nazionale, e in tutto questo, una persona cara ricoverata in condizioni serie in ospedale per Covid e le notizie di altre, contagiate, che si affollano di ora in ora. Sono giorni nei quali sembra di essere assediati da un esercito furioso, di vivere un inverno senza primavere.
Ed ecco i bambini che, con la loro passione per la magia dello spuntar da sotto terra dei germogli e poi del crescere delle piantine, dello sbocciare dei fiori, diventano per me inconsapevoli testimoni dell’irriducibile vittoria della primavera sull’inverno, della vita sulla morte, del fremere della vita già nel grembo oscuro della terra. Ricordo allora anche di un caro amico che in un momento durissimo della sua vita, quando doveva ricominciare daccapo, ricominciare a costruire dopo la devastazione, mi raccontava commosso di come la risalita fosse iniziata quando gli venne affidata la cura delle piante e del giardino della comunità dove si trovava.
E mi raccontava di come il seminare e l’attendere, l’innaffiare, il potare e tutti i gesti necessari alla vita del giardino, avessero fatto rinascere in lui la speranza e con essa, la determinazione di riscommettere sulla propria vita. Non avrei mai pensato di scrivere un 'pezzo' sui bambini e la capacità educativa del giardinaggio, invece sono qui a raccontare che la logica del seme che muore e che 'risorge' nel germoglio è una propedeutica formidabile al vangelo, direi che è vangelo implicito, scuola di umanizzazione che, in un tempo nel quale, causa forza maggiore siamo ancora più lontani dalla materialità delle cose, dalla 'terra', aiuta meglio a saper attendere: l’inverno passa, ma non è inutile, anzi è necessario perché il seme muoia e si prepari all’esplosione della vita della primavera. Che certamente verrà.
Mi ripropongo di provarci, di provare a seminare qualche pianticella sul mio terrazzo, magari è la volta buona! E suggerisco ai genitori, a voi genitori, di raccontare ai figli la speranza e la forza in un tempo difficile attraverso un seme, della terra, dell’acqua e un po’ di sole.