sabato 12 aprile 2025
Tra una dizione che non fotografa la realtà e una "artificiale", forse è opportuna una terza via, per bilanciare la regola costituzionale della filiazione naturale con quella della responsabilità
La Corte di Cassazione

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La dicitura “padre” o “madre” sparirà dalle carte di identità dei minori, poiché non rappresenta le coppie dello stesso sesso che hanno fatto ricorso all’adozione in casi particolari. Lo ha stabilito due giorni fa la Cassazione, che ha respinto il ricorso del Viminale contro la decisione della Corte d’Appello di Roma di disapplicare il decreto ministeriale del 31 gennaio 2019. Un provvedimento con cui il ministero dell’Interno (allora guidato da Matteo Salvini), aveva eliminato dai documenti dei minorenni il termine “genitore”, introdotto nel 2015 dal governo Renzi. Il ricorso nasceva da una decisione del Tribunale capitolino, che aveva disposto la sola indicazione del termine “genitore” nella carta d’identità elettronica di un minore figlio di due madri, una naturale e una di adozione. La Cassazione ha ritenuto che le diciture “padre” e “madre” non offrissero una corretta rappresentazione dello stato di famiglia del ragazzo e ja dichiarato «irragionevole e discriminatorio» quanto disposto dal decreto del Viminale. Ma adesso cosa ci aspetta? E che implicazioni può avere questa decisione?

L’appiattimento giurisprudenziale su un lessico apparentemente rispettoso di casi singoli trascura un dato fondamentale: l’interesse del minore. Cerchiamo di capirci, scrivere madre e padre su un documento ufficiale quando esiste un genitore ed un suo compagno dello stesso sesso è certamente erroneo in quanto due uomini o due donne non possono qualificarsi l’una madre e l’altra padre. La soluzione artificiale di qualificarli entrambi genitori, quando sicuramente uno genitore non è, fa torto all’interesse del minore, che è quello di innanzitutto conoscere e vedersi riconosciute le sue reali origini biologiche, da non mascherare con un lessico omologante.

Mi vi è di più, la soluzione dell’appiattimento delle figure paterna e materna dentro l’archetipo neutrale di “genitore” intende rimuovere una lettura che è peraltro quella raccolta dal contesto costituzionale italiano e cioè che la doppia figura genitoriale maschile e femminile rappresenti abitualmente un fattore di completamento della personalità del minore. Non c’è allora colpo di penna, quand’anche autorevole e qualificato, come un atto di un pubblico ufficiale, che possa cancellare la realtà dei fatti. Il contenuto della decisione della Cassazione muove da un assunto apparentemente granitico: che vi sia assoluta necessità di riconoscimento giuridico del “legame” tra il minore e il convivente non genitore naturale con la conseguenza di obliterare con la forza del linguaggio una riflessione, anche critica, dei contenuti di bisogni ed esigenze di tutela del minore connessi con il tema della genitorialità biologica.

Il diverso paradigma costituzionale della genitorialità naturale ha piuttosto una sua profonda ragione d’essere che comporta la rilevanza, nel mondo giuridico, del legame biologico tra figlio e genitore. Così come le argomentazioni delle corti hanno spesso radicato la tutela del legame “sociale” tra genitore di volontà e minore nel diritto all’identità del generato e alla responsabilità del genitore sociale, identiche ragioni possono essere richiamate per dare fondatezza alla rilevanza della genitorialità naturale. Un punto di osservazione maggiormente realistico, che abbia di mira la tutela del generato, non può in effetti trascurare a priori il legame naturale e biologico tra due esseri umani. Si rifletta sui temi della salute, specie laddove sia necessario per motivi di cura risalire all’identità sanitaria del genitore; si pensi, come detto, al diritto, consolidato, di ciascuna persona a conoscere le proprie origini biologiche. In altri termini, non si può evadere il quesito di senso che reclama la precondizione della genitorialità biologica e ridurla a fattore “esterno” da rimuovere per cedere il passo dinnanzi a nuove esigenze di garanzia di legami sociali e affettivi tra le persone.

Ora, la soluzione retrostante che ha dato adito alla scelta dei giudici e cioè il ricorso alla disciplina dell’adozione in casi particolari per le coppie dello stesso sesso aveva il merito di sottoporre al vaglio giudiziale, nell’ottica del concreto interesse del minore, la rilevanza giuridica del legame con il genitore intenzionale. Ma, ora, l’ineludibilità di una formalizzazione degli adottanti dello stesso sesso, in genitori, quasi che ciò abbia la capacità taumaturgica di cancellare la realtà delle cose non coglie la necessità di un bilanciamento degli interessi in gioco, cui non può essere a priori escluso quello connesso alla genitorialità naturale a tutela dell’effettivo interesse del minore nella concretezza della realtà data. Ha ragione la Cassazione quando ritiene che la scelta esclusiva tra le diciture laconiche “padre” e “madre” non offrisse una corretta rappresentazione dello stato di famiglia del minore, che pure rientra tra «le legittime conformazioni dei nuclei familiari e dei correlati rapporti di filiazione».

Per i giudici della Suprema Corte è perciò «irragionevole e discriminatorio » quanto disposto dal decreto del Viminale, perché prevede una denominazione priva «di un reale contenuto esplicativo», consentendo di indicare in maniera appropriata solo una delle due madri e imponendo all’altra di « vedere classificata la propria relazione di parentela secondo una modalità (“padre”), non consona al suo genere ». Altrettanto priva di reale contenuto esplicativo – per usare le stesse parole della Suprema Corte – però è riqualificare un coppia composta da una persona geneticamente estranea al minore come se invece, quest’ultima, fosse genitore. Si tratta piuttosto di una persona che si sostituisce alle funzioni genitoriali evidentemente non esercitate da chi, per il nostro ordinamento, sarebbe il “genitore”.

La soluzione più corretta e rappresentativa di questa realtà non è la dizione di padre ad una donna o madre ad un uomo, ma di qualificare tale persona per i compiti che svolge a favore del minore, che nella nomenclatura del certificatore può esprimersi in termini di “padre e madre o chi ne fa le veci” oppure “ne abbia la tutela”, così da bilanciare la regola costituzionale della filiazione naturale con la regola, anch’essa importante, della responsabilità di chi si fa carico di una situazione di fragilità umana.

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