La campana della chiesa di San Trifone in piazza Salandra suona ogni mezz’ora. I rintocchi di questa sera accompagnano i passi di una bambina mentre illumina decine di candeline che compongono il nome 'Mohamed'. Circa cento persone sono venute a ricordare il sudanese accasciatosi 5 giorni prima, il 20 luglio, su un campo di pomodori a qualche chilometro di distanza da qui. Erano le 13.30 e la temperatura superava i 40 gradi. Mohamed Abdullah aveva 47 anni. Sposato, padre di due figli, arrivato dalla Sicilia il giorno prima per lavorare fino a settembre, sprovvisto di un contratto. Secondo la prima autopsia, si è trattato di un infarto. Ma le autorità devono ancora far chiarezza su questo dramma ed eventualmente punirne i responsabili. «Quelli che speculano sulla vita delle persone sono mafiosi – interviene una partecipante alla veglia –. La mafia è quella che usa le persone come fossero bestie da soma, è quella che si fa beffa di qualsiasi diritto, e che opera alla luce del sole anche in consiglio comunale frenando le nostre iniziative». Tra i presenti, i rappresentanti di Caritas, Flai Cgil, Libera e altre associazioni che da anni combattono la 'schiavitù moderna' nella regione. A contrastarli c’è però un sistema ben ramificato, e spesso spietato, che coinvolge diverse forme di caporalato, un numero imprecisato di agricoltori, la corsa al profitto di cooperative, consorzi o aziende singole dell’orticoltura, e la fortissima pressione esercitata dalle grandi società di trasporto, trasformazione e distribuzione. Tra le fessure di questa massiccia struttura piramidale, s’infiltrano le mafie, più o meno organizzate, che sfruttano le debolezze della politica locale. «Il caporalato ha ormai preso una dimensione tentacolare», afferma Concetta Notarangelo, esponente del 'Presidio' Caritas a Foggia, un progetto nato con l’obiettivo di offrire assistenza legale e sanitaria ai migranti che lavorano nelle campagne. «Nel noto 'ghetto' di Rignano ci sono i capi-squadra o capineri: migranti di origine africana che parlano bene italiano e trasportano i braccianti tra il ghetto e i campi; poi ci sono molti romeni che prendono accordi tra i capi-squadra e i datori di lavoro; e infine – continua Notarangelo – stiamo assistendo a un aumento di italiani che arrivano al ghetto per trasportare direttamente i migranti nei loro campi». Ma a seconda delle diverse aree, la realtà cambia e si evolve. «Qui non abbiamo più africani, ma soprattutto gente dell’est Europa – spiega un caporale albanese di Orta Nova –. Abbiamo avuto troppi problemi con gli africani: volevano essere pagati ogni giorno e in contanti ». Sebbene da 15 anni nella provincia di Foggia si raccolgano pomodori soprattutto a macchina, in tutta la regione le ore dei braccianti cambiano a seconda del clima o dell’umore del datore di lavoro. Si fatica dalle 8 alle 12 ore giornaliere. Nel peggiore dei casi, quando la macchina si inceppa o piove, non c’è pausa. Le aziende che pagano meno, danno 2,5 euro all’ora o per un cassone di 3 quintali. Ma anche qui le cifre sono molto soggettive. A volte, invece, la paga viene rimandata continuamente senza mai essere distribuita. Nel piccolo Comune di Stornarella, a circa 20 chilometri da Foggia, un nigeriano basso e corpulento che si fa chiamare July racconta di quando qualche anno prima bastava farsi trovare in piazza alle 4 di mattina per salire su un furgone e andare in campagna. «Ora sono soprattutto i romeni a dare indicazioni a noi africani per gli alloggi e il trasporto – continua July –. La piazza è vuota perché i caporali non vogliono farsi notare». Anche a Nardò, tra le più gettonate méte turistiche del Salento, i braccianti tendono ormai a nascondersi nelle campagne senza più girare nelle cittadine una volta finita la giornata. «Siamo sicuri che la fiaccolata per Mohamed abbia rappresentato anche una minaccia per il lavoro di caporali sudanesi e tunisini che operano nella zona», commenta Antonella Cazzato della Cgil di Lecce. Alcuni membri delle diverse associazioni che lottano contro lo sfruttamento sono infatti stati oggetto di serie intimidazioni: pneumatici bucati o pistole brandite davanti alla faccia. Ma queste minacce sono dirette anche contro le aziende agricole che spesso sono vittime di una competizione feroce provocata dalle aste al ribasso. «Sappiamo che non è etico pagare un bracciante 2,5 euro all’ora – protesta un commerciante – ma non è neanche etico che le grandi società sottopaghino i nostri pomodori costringendoci al fallimento! ». La filiera, che dal lavoro nei campi porta il prodotto sugli scaffali dei supermercati, non ha pietà. L’unico obiettivo è il profitto, per questo ogni tentativo di rendere più etico tale processo viene ignorato o deriso. «Il drammatico schiavismo moderno nelle campagne è il sintomo di un’altrettanto grave malattia», spiega Antonio Fortarezza, documentarista foggiano che sta realizzando un filmato su questo tema. «L’estrema debolezza contrattuale del migrante è sfruttata dal caporalato. A questo si aggiunge la grande distribuzione nazionale e internazionale, la quale – conclude Fortarezza – ha l’enorme potere di imporre a proprio vantaggio il prezzo d’acquisto dei prodotti».