giovedì 9 novembre 2023
L’insieme di cavi di rame e fibra, connessioni mobili e wireless sono sempre più centrali in ogni ambito, compresi salute e sicurezza. Ma per tenere in piedi il sistema servono investimenti
Quando l’infrastruttura tlc funziona diventa un motore per tutto il Paese

Imagoeconomica

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L’infrastruttura delle telecomunicazioni è oggi parte integrante della vita quotidiana, delle attività commerciali e di pubblica amministrazione del Paese. Cavi di rame e fibra, reti wireless e connessioni mobili 5G consentono di rimanere connessi, accedere a importanti servizi di comunicazione, salute e sicurezza.

Un ecosistema centrale, strategico e sensibile, perché dalla rete passano tutte le comunicazioni e i trasferimenti di dati e informazioni. Le reti costituiscono la spina dorsale della connettività globale, facilitando una comunicazione pervasiva, promuovendo la collaborazione e stimolando la crescita economica. Man mano che queste reti continuano a evolversi e ad abbracciare nuove tecnologie, il mondo diventa sempre più interconnesso, creando opportunità illimitate sia per i singoli individui che per le aziende.

Da una parte la paura di un monopolio di settore, dall’altra le crescenti richieste di capacità di rete e connettività, emerse soprattutto durante il Covid-19 e l’impennata dello smart working e dei servizi internet per la didattica e il lavoro, hanno fatto maturare in Italia la consapevolezza della necessità di una rete stabile, affidabile e veloce. Nel nostro Paese la rete di telecomunicazioni è stata in pancia a Tim per oltre 25 anni, da quando nel 1997 il gruppo, all’epoca ancora chiamato Telecom Italia, sbarcò in Borsa a seguito della privatizzazione decisa dall’allora governo Prodi. Negli ultimi anni, però, l’obiettivo del governo sulla rete è cambiato: un operatore privato monopolista (che nel frattempo aveva accumulato un debito netto di circa 25 miliardi di euro, diventando di fatto la più indebitata società europea di telecomunicazioni) non era la strada giusta da percorrere per una rete affidabile, competitiva ed efficiente. Così l’idea è stata di avere un gestore unico – a partecipazione pubblica – per sviluppare un’infrastruttura di rete in fibra ottica in tutto il Paese. Per questa ragione è nata Open Fiber, società inizialmente partecipata da Enel e Cassa depositi e prestiti, con l’obiettivo di sviluppare la tecnologia Ftth (fibra ottica pura) per offrire un servizio all’ingrosso e dare una rete autonoma a cui potessero accedere fino a 20 operatori diversi per ogni area servita, aumentando così offerte e competitività.

Dopo questa decisione, gli operatori che si occupano delle infrastrutture di rete in Italia sono diventati due: da un lato Tim-NetCo, ora diretta verso la cessione a Kkr, dall’altro Open Fiber, che ad agosto 2021 ha visto l’uscita di Enel con il trasferimento delle quote societarie al fondo australiano Macquarie Asset Management. Due operatori che ora portano una forte partecipazione straniera su una imprescindibile infrastruttura di rete per l’Italia. La “nostra” rete, poi, è sempre stata un'eccezione nel panorama internazionale: mentre in altri Paesi c’erano e ci sono le reti della tv via cavo e quelle telefoniche, in Italia le prime mancano. I cavi della tv avrebbero infatti potuto fornire un’alternativa ai cavi della rete telefonica: reti, pozzetti, tracce sotterranee da cui far passare i cavi della banda larga. Per questa ragione quando Internet ha cominciato a chiedere sempre più capacità di dati rispetto a quella che poteva garantire la sola rete telefonica, sono cominciati i problemi.

In molti Paesi l’infrastruttura di telecomunicazione ha permesso di sviluppare veri e propri ecosistemi di servizi e gli operatori telco si sono trasformati in un interessante canale di distribuzione di queste soluzioni, registrando anche un considerevole aumento di ricavi. Ma, ricavi extra a parte, una rete performante diventa oggi il motore di crescita per un Paese, perché capace di influire in modo significativo sulla sicurezza, sull’economia e sui diritti, e la cui impostazione strategica definisce la creazione di un mercato interno forte, resiliente ed equo e capace di confrontarsi alla pari con altri Paesi. Inoltre, un’infrastruttura di rete solida e pervasiva permette di rispondere a importanti sfide sociali, eliminando le disparità generate da chi ha accesso ai servizi e di chi invece resta tagliato fuori perché residente in zone rurali o isolate, quelle che nella narrativa della rete vengono ancora chiamate “aree bianche” o “a fallimento di mercato”.

In questo contesto, Rete unica non significa necessariamente rete più performante. Anzi, l’Italia sarebbe un unicum in Europa, mentre un precedente a livello mondiale è quello portato avanti in Australia, con un piano volto a favorire la maggiore pervasività della connessione nel Paese. Un piano che si è tradotto in aggravi di spesa e scadenze fuori controllo, ma che non ha alleviato del tutto il profondo ritardo tecnologico dell’Australia, dove la diffusione dei servizi a banda ultralarga resta ancora rallentata. Ora il nostro Paese, al di là della vendita di Tim e del progetto di Rete unica, con il nuovo Piano per la Banda Ultra Larga 2023-2026, vuole superare il limite dei progetti e degli investimenti avviati già nel 2015. Le risorse in gioco, grazie anche al Pnrr, sono abbondanti: 2,8 miliardi di euro, la maggior parte dei quali già disponibili (2,4 miliardi), ma da soli non bastano. Occorre però un passo diverso e la consapevolezza che la rete prima che essere unica deve essere davvero disponibile per tutti e capace di abilitare i servizi che oggi sono imprescindibili, come la salute, la sicurezza, il lavoro e la sostenibilità sociale.

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