La sede della Banca centrale europea a Francoforte (Ansa)
La stabilità dei prezzi, e più precisamente un’inflazione vicina ma non oltre il 2%, è il principale obiettivo della Banca centrale europea. Sta scritto nel suo mandato. Il rischio che l’intera area della moneta unica scivolasse in una spirale di deflazione cronica (una situazione in cui i consumatori rinviano gli acquisti in attesa che i prezzi scendano e le aziende non investono perché non vedono nuovi guadagni nel futuro) ha giustificato le politiche monetarie più avventurose introdotte da Mario Draghi negli ultimi anni, dai tassi a zero o addirittura in negativo all’allargamento della massa monetaria per l’acquisto di titoli di Stato e obbligazioni private.
Il ritorno dell’inflazione nella zona euro sopra l’1% per la prima volta dal 2013 dovrebbe quindi essere accolto con soddisfazione a Francoforte: non è missione compiuta ma ci stiamo avvicinando. In realtà non è così semplice. L’accelerazione dell’indice dei prezzi è in larghissima parte dovuta alla ripresa del petrolio dopo i tagli decisi a novembre dal cartello dell’Opec: difatti se l’indice generale ha preso il volo passando dallo 0,6% di novembre all’1,1% di dicembre l’inflazione di base, che esclude l’energia, il cibo, l’acol e il tabacco, è salita di un solo decimale, passando dallo 0,8 allo 0,9%. Nel suo piccolo, è un passaggio chiave: per la prima volta da due anni l’inflazione di base torna superiore a quella che include anche i prezzi dell’energia, com’era normale prima del 2014.
L’inflazione a cui più guarda la Bce quando deve prendere decisioni è quella di base, meno influenzabile da fattori esterni, come in questo caso le decisioni dell’Opec. «L’inflazione di base continua ad essere molto mogia» ha ricordato Benoît Coeuré, membro francese del direttivo della banca centrale, in un’intervista uscita a fine anno sul quotidiano finanzario tedesco Börsen-Zeitung. È quello che aveva spiegato Draghi lo scorso 8 dicembre dopo l’annuncio della proroga, in forma ridotta, del Quantitative easing (gli acquisti andranno avanti fino a dicembre, ma da aprile al ritmo di 60 invece che 80 miliardi al mese). «Non c’è dubbio che i prezzi più alti del petrolio alimenteranno l’inflazione di base, ma dobbiamo vedere in che modo questo avverrà, così come dobbiamo vedere se sarà un effetto una tantum, se avrà effetti secondari e fino a che punto interesserà l’inflazione che esclude l’energia, sulla quale al momento non vediamo alcun effetto — ha detto il presidente della Bce —. Non c’è nessun segno di tendenza al rialzo nell’inflazione di base».
Andatelo a spiegare ai tedeschi, tradizionalmente ostili ai prezzi alti e ora spaventatissimi dalla corsa dell’inflazione, che in Germania a dicembre è volata dall’1 all’1,7%. «Intrappolati nei tassi di interesse» titolava ieri il quotidiano finanziario Handeslblatt dando voce al lamento dei risparmiatori che intrappolati tra i tassi a zero e l’inflazione quasi al 2% vedono erodersi i loro patrimoni. Non è solo una protesta “di pancia”. L’istituto Ifo, base dei “falchi” tedeschi, è tornato a chiedere che la Bce organizzi l’uscita dalle politiche monetarie ultra- espansive mentre Markus Söder, ministro delle Finanze bavarese esponente di peso della parte più “dura” della Csu, ha definito «devastante per i risparmiatori » la combinazione tassi bassi-inflazione. Lo stesso presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, non ha mai nascosto di vivere con disagio la generosità della politica monetaria espansiva della Bce.
Il problema dei tassi a zero, così importante per le casse del risparmiatore tedesco, si sta conquistando un posto rilevante tra i temi della campagna elettorale che ci porterà alle elezioni federali tedesche, in agenda per il prossimo autunno. Nel mandato della Bce l’indipendenza viene naturalmente ancora prima della stabilità dei prezzi. Con queste premesse c’è da temere che nel 2017 sarà messa alla prova come mai prima d’ora. © RIPRODUZIONE RISERVATA