Il porto di Gioia Tauro - Ansa
Un altro “scontro” tra tutela dell’ambiente e della salute e difesa di tanti posti di lavoro. Ancora una volta accade al Sud, come per l’Ilva di Taranto. Questa volta il caso riguarda il porto di Gioia Tauro, il più importante scalo container d’Italia, quinto in Europa, terzo nel Mediterraneo, ma che a fine anno potrebbe essere primo o secondo. La maggior azienda calabrese che rappresenta il 50% del Pil privato della Regione, con 1.400 dipendenti diretti, 600 esterni e un indotto di altri 2mila. In un territorio con altissima disoccupazione. Un porto in costante crescita. Eppure nei giorni scorsi sindacati, Comuni e la stessa Regione Calabria, hanno denunciato le possibili gravi conseguenze per l’occupazione e per la sopravvivenza stessa del porto a causa della prossima entrata in vigore, l’1 gennaio 2024, della direttiva Ue Emission transfer system (Ets) che nasce dal pacchetto “Fit For 55” che impone la riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
La direttiva prevede questa riduzione anche in ambito marittimo e impone agli armatori di compensare le emissioni inquinanti, in altre parole pagare corpose “multe”. Per i vettori che operano su Gioia Tauro si tratterebbe di un aggravio da 100mila euro in su a carico. Così potrebbero trasferire le proprie rotte su scali nordafricani, non sottoposti alle norme europee, come Port Said e Tangeri che competono con Gioia Tauro sul podio mediterraneo. La norma europea riguarda le navi con una stazza di più di 5mila tonnellate e colpisce di più i porti con più del 65% di traffico in transhipment, cioè trasbordo, dove da navi enormi con migliaia di container, si caricano navi più piccole. Gioia Tauro è proprio questo tipo di porto, con un movimento che a fine anno dovrebbe raggiungere i 4 milioni di Teu, la misura equivalente a un container da 20 piedi. Dunque nello scalo calabrese arrivano proprio le navi più grandi ma anche più inquinanti.
Come spiega Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente, «dalle navi arriva il 3% delle emissioni di gas climalteranti, numeri che continuano ad aumentare mentre in altri settori sono in calo. La riconversione a motori meno inquinanti è possibile, le navi da crociera l’hanno iniziata, meno quelle merci. E ora, a tre mesi dall’entrata in vigore della direttiva, si protesta, ma è stata approvata un anno fa e durante la discussione e anche dopo nessuno aveva posto questi problemi». Facciamo un esempio. Se una nave che parte da Singapore (un porto extra europeo) fa scalo a Gioia Tauro (quindi all’interno dell’Ue) e poi va ad Anversa (sempre nell’Ue), la compagnia dovrà pagare il 50% delle emissioni generate fra i primi due porti e il 100% di quelle fra i secondi due. Ma se lo scalo intermedio è Port Said o Tangeri, paga solo il 50% della seconda tratta. Un risparmio di 100mila euro. Circa il 50% del traffico intercontinentale negli hub va su rotte che collegano l’Asia alle Americhe.
La nave che parte da Singapore, fa scalo a Port Said e poi si dirige a New York non pagherà nulla, visto che sono tre porti non europei. Non così se lo scalo intermedio fosse Gioia Tauro. Ecco dunque il rischio che i vettori abbandonino il più costoso porto calabrese. Oltretutto dai porti nordafricani i container potrebbero partire anche verso l’Europa con navi di meno di 5mila tonnellate, dunque escluse dal pagamento delle quote. Altro vantaggio. Non ambientale perché in tutti i casi le emissioni non diminuirebbero e certo l’Europa non sarebbe salvata da inquinamenti lontani poche centinaia di miglia. Ora, forse fuori tempo massimo, scatta la protesta in Calabria. Si chiedono deroghe o proroghe. Il 17 ottobre manifestazione a Gioia Tauro.