Capita, quando il crimine scende in campo, che la mozzarella diventi blu e la bresaola si faccia fosforescente. Almeno, in questi casi, capiamo subito che c’è qualcosa che non va. Nel nostro piatto può succedere di tutto, quando è al lavoro «l’agromafia».Nella giornata conclusiva del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione organizzato a Cernobbio da Coldiretti, l’Eurispes anticipa qualche dato del suo rapporto sulle agromafie, che sarà pronto entro un mese. Un terzo della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia, per un valore di 51 miliardi di euro, deriva da materie prime importate. Nel 2009 l’Italia ha importato 161 mila tonnellate di pomodori finiti quasi tutti a Salerno, dove aziende scorrette possono rivenderli come San Marzano. Mentre circa 65 mila tonnellate di vini di uve fresche americani sono arrivati a Cuneo, e lì, almeno si sospetta, qualcuno le ha imbottigliate magari spacciandole per Barolo o Barbaresco. Così come può sorgere qualche sospetto sulle quasi 5mila tonnellate di carne suina cilena trasformata in prosciutti e salami a Modena e Milano.Forse, allora, «agromafia» è un’espressione troppo forte per descrivere una realtà complessa. «C’è la criminalità organizzata che investe i suoi soldi sporchi nell’agricoltura – spiega Gian Maria Fara, fondatore e presidente di Eurispes – poi c’è una grande area grigia dove aziende normali lavorano in maniera sleale». Non sono solo camorra e mafia a fare pasticci col nostro cibo, quindi, ma anche aziende non legate a organizzazioni criminali ma comunque scorrette. Come chi fa la pasta in Grecia e poi scrive che l’ha fatta in Italia, o prende i pomodori tunisini e li "battezza" ragusani imbrogliando i clienti. È per evitare casi del genere che Coldiretti, come ha ricordato ieri il presidente Marini, da anni insiste per una tracciatura completa della filiera alimentare leggibile sull’etichetta. Poi ci sono le mafie vere, che nei campi fanno di tutto. Il pubblico ministero di Santa Maria Capua Vetere mostra i filmati raccolti dalla sua procura c’è chi col trattore sparge fanghi tossici e scarti industriali nei campi agricoli e ci sono altri campi su cui vengono costruite in pochi mesi intere città abusive. «A Caserta, in fatto di illegalità non ci facciamo mancare niente» ironizza triste Ceglie che poi si fa orgoglioso, quando è il momento di raccontare i bei risultati ottenuti dalla Cooperativa intitolata a Don Peppino Diana dai terreni sequestrati al boss Francesco Schiavone, conosciuto come "Sandokan".Qualche risultato, nella lotta ai pirati dell’alimentazione, comunque c’è. Gli alimenti sequestrati nel2010 sono aumentati del 40% rispetto al 2009, con oltre 10 milioni di pezzi fermati dai Nas. È un passo avanti, ma per il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, si deve fare di più. Guariniello parla di ispezioni troppo rare, e spesso troppo morbide, negli stabilimenti, di alcuni ispettori che addirittura avvertono gli imprenditori prima di andare a controllare. «Rischiamo di generare un’idea diffusa di impunità» accusa il magistrato, che propone «una soluzione che è anche un mio vecchio sogno: la nascita di una Procura nazionale di contrasto alle frodi alimentari, un’organizzazione giudiziaria dedicata solo a questi problemi».
Pietro SaccòPOMODORO CINESEIl pomodoro da industria è forse l’esempio più noto di prodotto agricolo che, stando ai coltivatori ma non solo, arriva cinese e si ritrova italiano. Un fenomeno che ormai coinvolge enormi quantità di materia prima e che ha messo in serio pericolo il buon nome della "passata italiana" da sempre uno degli alimenti più noti della dieta mediterranea. Basta pensare che nel 2009 sono state importate in Italia 161.215 tonnellate di pomodori preparati o conservati (il 52,9% di questi proviene dalla Cina); il 98,6% del totale dell’import finisce niente di meno che nella sola provincia di Salerno, la patria del mitico San Marzano. Tutto senza contare le false passate nostrane che si ritrovano in giro per il mondo.
Andrea ZaghiUVA AMERICANAL'Italia, si sa, è una delle patrie dei vini rossi e bianchi (senza dimenticare gli spumanti). Desta quindi curiosità un fenomeno che le statistiche nazionali rilevano da tempo. Il nostro Paese, infatti, nello scorso anno ha importato dall’estero circa 70.500 tonnellate di vini (la categoria doganale esatta è "vini di uve fresche"), per la quasi totalità provenienti dagli Stati Uniti e solo marginalmente dalla Repubblica Sudafricana, dal Cile e da altri Paesi. Ed è ancora più curioso che questa ingente quantità di prodotto sia stata destinata, per il 94,8%, alla provincia di Cuneo, nota in tutto il mondo per il Barolo, il Barbaresco e un sacco di altri grandi rossi ovviamente Made in Italy. (
A.Zag.)CARNE CILENAAnche la carne non sfugge alle importazioni dall’estero di prodotti che in Italia prendono strade interessanti. Uno dei casi più eclatanti è quello delle carni suine. Nel 2009, sono state importate 4.983 tonnellate di carne di maiale proveniente per il 91% dal Cile che, una volta arrivate sul suolo nazionale, queste sono state destinate per l’87,4% alle sole province di Milano e Modena, dove, come è noto, si confezionano alcuni dei prosciutti "italiani" per eccellenza che circolano in tutto il mondo con tanto di etichetta che ne certifica la provenienza e l’origine assolutamente nazionale. Una situazione che dovrebbe insospettire più di un produttore e che, in ogni caso, può creare confusione nel consumatore.
(A.Zag.)OLIVE MEDITERRANEEL'olio extra vergine di oliva è – insieme al Parmigiano Reggiano, ai vini, alla pasta e al pomodoro –, uno dei prodotti agroalimentari che fieramente portano in giro per il mondo il nostro buon nome. Olio che naturalmente deve essere fatto con olive prodotte e lavorate in Italia ma che molto spesso deve fare i conti con l’immissione di "vagonate" di olio di altri Paesi del bacino del Mediterraneo. Proprio questa è stata la causa, più di un decennio fa, della "guerra dell’olio di oliva". Secondo i dati Istat segnalati da Coldiretti, si parla ogni anno di circa 500 milioni di chili di prodotto importato, di cui buona parte finisce nelle bottiglie e nelle lattine etichettate come italiane. Con buona pace degli sforzi dei produttori agricoli per distinguere il loro olio nel mercato.
(A.Zag.)