Il corpicino della bimba morta di freddo a Khan Younis la notte di Natale - Ansa
Il suo nome era Sila, parola di origine greca che vuol dire “nostalgia”. Nostalgia della propria casa, della propria vita, dei propri affetti. Quanto di più manca al popolo di centinaia di migliaia di sfollati di tutta la Striscia ammassato a al-Mawasi, la “zona sicura” creata dall’esercito israeliano nel sud di Gaza, a ridosso di Khan Yunis. Peccato che più volte i raid siano arrivati anche là. Schiacciate tra le macerie e la spiaggia, poi, le tende sono particolarmente esposte alle intemperie di questo secondo inverno di guerra.
La temperatura, dall’inizio della settimana, è scesa a meno 9 gradi. Sotto un telo di nylon non isolante, Sila, nata all’inizio di dicembre, non riusciva a scaldarsi. Il padre, Mahmoud al-Fasih, 31 anni, ha cercato di avvolgerla in una coperta ma la piccola continuava a tremare. La madre, Nariman, ha provato a riscaldarla con il proprio corpo. «Se avessi avuto un maglione in più magari, ma anche la mia pelle era gelida». Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, i genitori sono rimasti a vegliarla. «Si è svegliata tre volte piangendo. Poi ha smesso, non aveva più la forza... », ha detto il padre, il quale non si è nemmeno accorto quando è morta. «L’ho toccata ed era rigida come un pezzo di legno». La corsa, a piedi, con la bimba fra le braccia, fino all’ospedale Nasser di Khan Yunis è stata vana. I medici non sono riusciti a rianimarla.
Sila è uno dei quattro neonati morti di ipotermia a Gaza negli ultimi giorni. Altri due, secondo Ahmed al-Farra, direttore del Nasser, avevano tre giorni e un mese. Il quarto si è spento oggi.
Vittime che si aggiungono alla lista lunghissima di minori uccisi dall’inizio del conflitto: oltre 17mila, in base ai dati del ministero della Salute controllato da Hamas.
Il direttore dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) parla di un bambino ucciso ogni ora nel’enclave. «Abbiamo cercato di vivere questi giorni di festa nel miglior modo possibile. Ma non è facile. Più della mancanza di cibo, di medicine, di libertà di movimento, a farci male è soprattutto il rumore costante delle bombe. Ogni esplosione, qualcuno viene ucciso e non sai chi. E poi tanti muoiono per la crisi umanitaria. Fa soffrire essere immersi in tanta morte».
Gabriel Romelli si sforza di mantenere la voce ferma. Ma la prosecuzione dei combattimenti anche a Natale lo hanno provato. Il parroco della Sacra Famiglia – l’unica chiesa cattolica di Gaza – parla in fretta: la sera del 24, il cellulare di padre Gabriel Romanelli ha squillato in anticipo di mezz’ora, alle 19.30 invece che alle 20 (ora locale).
«Papa Francesco ha chiamato appena prima di aprire la Porta Santa a San Pietro. Ci ha augurato buon Natale e ci ha impartito la benedizione. Poi ha telefonato di nuovo il 25 e ieri: lo sentiamo tutti i giorni. Anche quando è in viaggio trova sempre un momento per noi. Non ci ha mai lasciato soli. Quella del 24, però, è stata una conversazione molto speciale – racconta il parroco della Sacra Famiglia, l’unica chiesa cattolica della Striscia -. Ci ha fatto sentire la forza del Giubileo della speranza appena iniziato. E la speranza è l’unica cosa a cui non possiamo rinunciare qui».
Qui: cioè dietro il muro fisico e high tech che sigilla l’enclave dal 2006 e che, dal 7 ottobre, viene socchiuso a intermittenza per lasciar passare, con il contagocce, gli aiuti umanitari. E, in particolare, nella parrocchia trasformata, da quasi 15 mesi, in rifugio per circa 500 fedeli e 58 disabili islamici. Altri 200 sono ospitati nella chiesa ortodossa di San Porfirio.
Il resto dei 1.017 cristiani presenti a Gaza prima della guerra è in gran parte fuggito in Egitto. Solo 37 si sono spostati nel sud, secondo gli ordini di evacuazione israeliani. Venti sono stati uccisi e altri 26 sono morti per malattie, acuite dall’emergenza sanitaria in corso. I superstiti, per il secondo Natale consecutivo, si sono riuniti alla Sacra Famiglia per la celebrazione della Vigilia, anticipata al pomeriggio. Il 25 hanno partecipato di nuovo alla Messa del mattino. «È stato un bel Natale. Il conflitto ci ha costretto a tornare all’essenza: la preghiera e l’ascolto della Parola. Abbiamo anche cercato di fare un po’ di festa per alleviare il dolore generale. Non è stato facile con il rumore delle bombe in sottofondo».
Anche per Natale i raid sono andati avanti: sono almeno una trentina secondo il ministero della Salute controllato da Hamas, i palestinesi uccisi nelle ultime 72 ore. «Per tutto l’anno, abbiamo messo da parte qualche giocattolino, altri li abbiamo comprati a prezzi esorbitanti perché la scarsità ha fatto schizzare l’inflazione. Non è stato facile. Siamo, comunque, riusciti a fare un piccolo dono a ognuno dei 140 bimbi rifugiati. Abbiamo anche fatto una torta grazie alle arance che ci ha fatto arrivare il Patriarcato. Abbiamo fatto l’impasto senza uova perché sono introvabili: solo farina, acqua e crema in polvere. Ma è venuta una meraviglia: le famiglie erano così contente. Ci ha fatto molto bene la visita, domenica, del cardinale Pierbattista Pizzaballa».
Proprio il Patriarca ha rivolto un pensiero speciale ai «fratelli di Gaza» e alla loro «meravigliosa testimonianza di forze a di pace» nell’omelia della Messa della Vigilia in una Betlemme stremata dalla crisi. «Non siete soli – dice loro -. Davvero voi siete un segno visibile si speranza in mezzo al disastro della totale distruzione che vi circonda. Ma voi non siete distrutti, siete ancora uniti, saldi nella speranza», ha detto.