mercoledì 20 ottobre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Abolire l’attuale normativa sulle esenzioni Ici, sarebbe «un autogol». O quanto meno «una misura che non farebbe risparmiare un euro». Dato che poi i comuni dovrebbero reimpiegare il maggior gettito (e anche qualcosa in più) per far fronte ai bisogni coperti dagli enti che verrebbero colpiti. Ad affermarlo è Patrizia Clementi, tributarista della diocesi di Milano, che – norme alla mano – motiva la propria affermazione, documentandola con esempi e dati concreti.Innanzitutto, chi verrebbe colpito da una simile norma?Se con il passaggio dall’Ici all’Imu venisse rivisto anche il regime delle esenzioni, i soggetti colpiti non sarebbero solo gli enti ecclesiastici (parrocchie, diocesi, enti dei religiosi), ma anche moltissime organizzazioni della società civile: associazioni sportive dilettantistiche, associazioni di volontariato, pro loco, onlus diverse dalle cooperative, associazioni culturali, fondazioni e comitati. Cioè tutti gli enti definiti «non commerciali». In pratica il mondo del non profit.Dunque non si intacca un presunto privilegio della Chiesa cattolica.Altro che privilegio. L’area dell’attuale esenzione riguarda anche le altre confessioni religiose e comunque tutti quei soggetti che svolgono determinate attività di elevata utilità sociale. Quello che non si riesce a capire è il ragionamento di certi mass media, secondo cui, se vengono cancellate le esenzioni in qualche modo riconducibili alla Chiesa cattolica, si cancella un privilegio. Mentre invece, quando le stesse esenzioni riguardano enti laici che svolgono le medesime attività degli enti religiosi, il privilegio non c’è, anzi c’è addirittura un danno sociale.Stabilito, dunque, che si tratterebbe di un danno sociale, vediamo di stabilirne l’entità.La norma a rischio di cancellazione prevede l’esenzione dall’Ici per gli immobili utilizzati da tutti gli enti non commerciali e destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali e sportive, nonché ad attività di religione e di culto.Un’area piuttosto estesa, dunque. In concreto?In concreto si dovrebbe pagare l’Ici per le mense e i dormitori per i poveri, per gli ospedali e gli ambulatori convenzionati gestiti da enti non commerciali, per le scuole private paritarie e tutti gli istituti inseriti nell’ambito del sistema nazionale di istruzione. Pagherebbero l’Ici anche le associazioni sportive dilettantistiche proprietarie di impianti sportivi riservati ai soli soci. E naturalmente i musei (anche per la parte espositiva, perché per i locali dove si vendono gadget o c’è la caffetteria già si paga), le sale della comunità, i cinema d’essai e quelli per i festival cinematografici. Ripeto, non solo ecclesiastici. Infine pagherebbero l’Ici i teatri dove si esibiscono esclusivamente compagnie non professionali.E le chiese?Le chiese, così come le loro pertinenze (cioè i locali per il catechismo, la casa del parroco, il campetto dell’oratorio), resterebbero esenti perché tutelate da un’altra norma. Ma qualcuno potrebbe un domani discutere sul concetto di pertinenza che ora è pacificamente accolto, rimettendo tutto in discussione.Qualcuno sostiene che queste esenzioni violano la concorrenza.Ma ci può mai essere concorrenza tra una mensa caritas e un ristorante? O tra una casa per ferie correttamente intesa e un vero albergo? Assolutamente no, perché svolgono due funzioni completamente diverse.A proposito di case per ferie e alberghi qual è la differenza?Le case per ferie sono gestite da soggetti che non fanno di professione gli albergatori, devono avere un bacino d’utenza predefinito e non possono essere aperte tutto l’anno. Ad esempio: la casa dei sacerdoti di una determinata diocesi o regione ecclesiastica, che la usano per gli esercizi spirituali. In questo caso dov’è la concorrenza con gli alberghi?
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: