giovedì 20 febbraio 2025
Il boom globale della costruzione di nuove centrali (con l'Italia che insegue) rischia di scontrarsi con la scarsità del combustibile necessario per alimentarle
Un blocco di esplorazione per nuove minieri dell’uranio a Severnoye,in Kazakhsta

Un blocco di esplorazione per nuove minieri dell’uranio a Severnoye,in Kazakhsta - Kazatomprom

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Nella corsa alla costruzione di nuove centrali nucleari, Europa e Stati Uniti potrebbero non avere fatto bene i conti con la materia prima che servirà per farle funzionare: l’uranio. Qualche giorno fa il Financial Times ha rilanciato l’allarme di diversi analisti e operatori del mercato energetico sulla disponibilità del metallo usato come combustibile nel processo di fissione nucleare. «Siamo su una curva di esaurimento di cui mi sembra che non molti clienti si siano resi conto» ha avvertito dalle pagine del quotidiano britannico Cory Kos, vice presidente di Cameco, una delle maggiori società di commercio di uranio.

L’uranio non è una “terra rara”, ma un metallo relativamente comune nella crosta terrestre, dove è disponibile più o meno come lo zinco o lo stagno, spiega la World Nuclear Association, l’associazione mondiale del settore. È presente nella grande maggioranza nelle rocce e anche nel mare. Sono però molto più rari i giacimenti di uranio, cioè i casi di presenza del metallo in una concentrazione e un contesto geologico tale da permettere tecnicamente di estrarlo a un costo economicamente sensato. Più della metà delle riserve mondiali di Uranio che si possono sfruttare sono concentrate in tre Paesi: Australia (28%), Kazakhstan (13%) e Canada (10%). Ci sono poi giacimenti significativi in Africa, in particolare Niger, Namibia e Sudafrica, e in Asia, tra Cina e Uzbekistan.

Concretamente, però, attualmente il solo Kazakhstan produce più del 40% dell’uranio estratto ogni anno a livello mondiale, mentre un altro 35% viene da Canada, Namibia e Australia. Chi oggi vuole comprare combustibile per le centrali nucleari è a questi Stati che si deve rivolgere. Cina e Russia lo hanno capito prima degli altri. Negli ultimi anni imprese cinesi e russe si sono adoperate per siglare nuovi contratti di fornitura con Kazatomprom, la compagnia mineraria statale kazaka. Secondo le stime riportate dalla stessa società, la quota di produzione esportata in Russia e Cina è salita da un terzo a due terzi soltanto tra il 2021 e il 2023, mentre la quota ceduta a clienti occidentali è scesa nello stesso periodo da due terzi a un terzo. La competizione per le forniture kazake è forte: lunedì Kazatomprom ha firmato il suo primo contratto in Svizzera, con Axpo Power.

Le torri di raffreddamento della centrale nucleare di Dukovany, in Repubblica ceca

Le torri di raffreddamento della centrale nucleare di Dukovany, in Repubblica ceca - cc Pexels

Anche in altri Paesi produttori stanno emergendo problemi per le aziende occidentali: la società pubblica francese Orano, che si occupa per lo Stato di forniture di combustibile atomico, lo scorso anno ha perso il controllo delle attività in Niger, da cui otteneva il 16% del combustibile nucleare per le centrali transalpine, e ora sta cercando nuove sponde altrove. A gennaio ha concluso un accordo per l’espansione dell’attività in Mongolia.

Per decenni la produzione globale di uranio è stata superiore al consumo. Ora che la dinamica domanda-offerta si è sbilanciata, i prezzi salgono. A differenza di altre materie prime energetiche come il petrolio o il gas naturale l’uranio non è quotato su mercati aperti. Cameco però si occupa del monitoraggio tra i contratti che le aziende negoziano privatamente. Dai suoi dati emerge che per la libbra di trituranio ottossido, il composto dell’uranio naturale usato come unità di misura per gli scambi, il prezzo medio per contratti di lungo termine era sui 33 dollari a gennaio 2020 e da lì ha iniziato una progressione che lo ha portato oltre i 50 dollari nel 2022 e oltre i 70 lo scorso anno. Ora siamo a 81 dollari.

Gli analisti si aspettano che la domanda possa aumentare di quasi il 30% entro il 2030 per poi fare un altro balzo di oltre il 50% per il prossimo decennio. Già oggi le miniere riescono a coprire circa il 75% della domanda, il resto viene da fonti “secondarie” come le riserve nazionali – accumulate anche per scopi bellici – o da carburante rigenerato. Nello stesso tempo i nuovi reattori sono più efficienti e quindi riescono a funzionare con meno materia prima di quelli vecchi, anche se hanno bisogno di un maggiore arricchimento del combustibile. Poi è anche vero, come ricorda ancora la World nuclear Association, che se le quotazioni dell’uranio fossero dieci volte superiori a quelle attuali diventerebbe economicamente sensato anche ottenere uranio dall’acqua di mare, ma a quel punto la competitività economica dell’energia atomica sarebbe definitivamente compromessa.

Insomma, non ci sono vie di uscita facili. Nemmeno l’energia da fissione nucleare, che può avere un ruolo centrale nella transizione energetica per sostituire fonti più inquinanti come il gas e il petrolio, metterà la vecchia Europa al riparo dalla dipendenza dai fornitori stranieri con i quali non è sempre facile confrontarsi.




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