Marco Bentivogli - Archivio Avvenire
Parla (e scrive) di «rabbia nei confronti di quei padroni, manager, capi e capetti» che hanno contribuito a fare dell’Italia «un Paese con un tasso di felicità e di coinvolgimento sul lavoro tra i più bassi come certifica Gallup». Marco Bentivogli, coordinatore nazionale della startup civica Base Italia e già segretario generale dei metalmeccanici Cisl, lancia una nuova sfida culturale nel mondo stagnante delle relazioni di lavoro con un pamphlet dal titolo che è tutto un programma: Licenziate i padroni – Come i capi hanno rovinato il lavoro (Rizzoli, 170 pagine, 17 euro).
Bentivogli, cos’è nostalgia di vecchie ideologie? E chi sarebbero i padroni da licenziare?
Nessuna nostalgia, piuttosto è ora di guardare al futuro, ad un’evoluzione che molti non vogliono vedere e vorrebbero fermare. Quanto ai padroni si potrebbe rispondere alla maniera di Forrest Gump «padrone è chi il padrone lo fa» o meglio si comporta come tale. Questo libro vuole aprire una discussione sul potere, a partire da quello esercitato nelle aziende, nei rapporti di lavoro. Ancora con vecchi schemi che non reggono più ma continuano a rendere difficile e a inquinare il rapporto con il lavoro. In particolare per i giovani, che avrebbero bisogno, invece, di ritrovare e fare proprio il senso del lavoro. Invece di accompagnare e guidare le transizioni pensano solo al loro prestigio.
Quali vecchi schemi?
Ci sono quattro fattori concomitanti che hanno peggiorato la situazione in Italia. Il primo è l’ostinata permanenza di strutture organizzative ispirate alla cultura gerarchica padronale, basata su “comando e controllo”. Il secondo (senza generalizzare) è l’avvento di quella che il sociologo Alain Deneault ha definito “mediocrazia”, la troppo diffusa presa del potere da parte di capi mediocri. Il terzo è lo stravolgimento della rivoluzione digitale che, invece di liberare spazio e tempo, ha portato molti capipadroni a entrare nelle case e spesso addirittura nella vita dei lavoratori. Il quarto, infine, è il narcisismo senile di padroni portati a spendere più in comunicazione che in formazione, creando solo il vuoto. Ma così facendo si finisce per soffocare la produttività e il “BenVivere” (che è qualcosa di più del benessere) dei lavoratori.
E invece come se ne esce?
Cominciando a evitare quello che chiamo il rainbow washing, la grande lavanderia di tutti i colori dell’arcobaleno, dal rosa al verde, o il riempirsi la bocca di “ Diversity and Inclusion”. Perché in realtà, sotto le insegne di un neo paternalismo rivestito di termini inglesi, si nasconde niente altro che il vecchio esercizio dei poteri, della subordinazione dei lavoratori. E invece il rispetto e la dignità delle persone si costruiscono dentro un legame di reciprocità.
Un nuovo modello finalmente partecipativo?
Certo, la partecipazione è molto più importante e densa di significati dell’inclusione perché modifica poteri e culture. Ed è alle aziende innanzitutto che converrebbe ricercarla con il massimo sforzo, anzitutto smettendo di controllare e misurare la produttività solo in termini di quantità di beni prodotti o di ore passate in ufficio. Perseguire solo l’interesse degli azionisti porta a disastri, serve intelligenza sociale dell’impresa e vanno certamente coinvolti i lavoratori nei processi decisionali. Più in generale, il contratto deve diventare sempre più un progetto condiviso costruito su una relazione umana e non un mero scambio di prestazione oraria contro salario. Infine, per rendere concreta davvero – e non solo in maniera retorica – la centralità della persona occorre inserire il valore della cura nella vita dell’azienda, che è anzitutto una comunità. Come spiega bene Luigino Bruni (anche su Avvenire), la cura va inserita all’interno del modello di business delle imprese.
A proposito di contratti, bastano questi o serve un salario minimo per legge?
Venti anni fa avrei risposto certamente che la contrattazione è del tutto sufficiente. Ma chi si occupa di rappresentanza non può essere dogmatico e non guardare all’evoluzione della situazione del lavoro. E dunque oggi dico che sì, qualche forma di salario minimo per legge sarebbe necessaria, perché in particolare nel terziario non si riesce più a tutelare adeguatamente tutti i lavoratori e i sindacati faticano addirittura a rinnovare i contratti nazionali. Serve un salario minimo pensato in una modalità un po’ più raffinata rispetto a quella ideata dalle opposizioni, che coinvolga i sindacati e non danneggi la contrattazione stessa. Accompagnato anche da una legge sulla rappresentanza sindacale.
Finora non ha fatto alcun nome di padrone da licenziare. Provo a suggerirne io due: chi andrebbe licenziato tra lo Stato e Arcelor-Mittal per la crisi profonda in cui si trova l’ex-Ilva?
Entrambi, certamente. Ma prima lo Stato perché dall’accordo del 2018 ha contribuito a determinare il disastro attuale, dalla reciproca responsabilità che pubblico e privato dovevano assumersi si è giunti a un reciproco disimpegno. Rimuovendo lo scudo penale si è dato un alibi gigantesco al socio privato per sfilarsi. E l’acciaio che serve all’Italia lo importiamo da Germania e Turchia.