Un capo scout “celebra” un’unione civile con il compagno. Il parroco ne sollecita le dimissioni alla luce delle sue responsabilità educative. Il viceparroco frena. La comunità si divide. Il clima è pesante. Ma, dopo una ventina di giorni, l’intervento dell’arcivescovo spiazza tutti. Rifiuta il ruolo del giudice, non assolve e non condanna. Ma invita la comunità a riflettere insieme per capire se, anche da un avvenimento così divisivo, si possono cogliere aspetti di grazia.
Un intervento all’insegna della moderazione quello deciso dall’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, che nei giorni scorsi ha presentato al consiglio presbiterale e a quello pastorale un’ampia riflessione sul caso Staranzano, il piccolo Comune alle spalle di Monfalcone, teatro di una vicenda che che un tempo si sarebbe definita pruriginosa. Prendendo spunto dagli Atti degli Apostoli, e in particolare dalla descrizione del Concilio di Gerusalemme ( At15) – in cui ci si trovò a decidere come organizzare la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli convertiti dal paganesimo – Redaelli propone di seguire la stessa indicazione. Ascoltare lo Spirito, senza pretendere di trovare ricette preconfezionate nelle Scritture o nella tradizione canonica. Il passaggio si trova in un testo di Carlo Maria Martini ( Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel tempo di oggi, Milano 2017) che Redaelli definisce «un grande maestro del discernimento».
Dall’arcivescovo di Milano scomparso nel 2012, Redaelli fu ordinato sacerdote e poi nominato avvocato generale della Curia ambrosiana. Ora il riferimento a Martini serve per introdurre ciò che può sembrare strano e forse, ad alcuni, anche inopportuno. E cioè «di fronte a ciò che ha creato contrasti e scalpore» si può osare chiedersi quali siano gli aspetti di grazia presenti? Redaelli ricorda il passaggio di Paolo nella Lettera ai Romani («Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio». Ma non certo per concludere che tutto – e in particolare le scelte compiute dai protagonisti della vicenda – può essere definiti “bene” in maniera semplicistica. Ma per ripercorrere la vicenda con la lampada di quel discernimento che, a parte Martini, è indicato come prassi virtuosa anche da papa Francesco in Amoris laetitia. L’Esortazione postsinodale sulla famiglia è richiamata esplicitamente per ricordare, sintetizza Redaelli, che «chi si aspetta o pretende sempre e comunque princìpi chiari, astratti e immodificabili... non può che restare deluso». Criterio di umiltà e di realismo tanto più valido quando non ci si confronta non princìpi astratti, ma con l’intimità dei sentimenti delle persone. Proprio l’opportunità del confronto è il primo degli aspetti di grazia indicato dal vescovo di Gorizia. Come grazia «è la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale». Ma anche «l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno».
Su questo aspetto Redaelli ricorda il diritto al rispetto e alla dignità personale, che vuol dire atteggiamento non giudicante. Grazia allora – e qui arriviamo a uno dei punti più delicati, ma anche più coraggiosi della lettera – vuol dire anche «individuare la volontà di Dio per la propria vita nella concretezza della situazione in cui si trova». È il grande principio del “massimo bene possibile” qui ed ora – richiamato più volte in Amoris laetitia – che si oppone alla logica farisaica del “minimo indispensabile”.
E, se è vero che non bisogna mai rinunciare a proporre l’ideale evangelico «sapendo ben distinguere le diverse situazioni di partenza » è altrettanto vero – annota ancora il vescovo di Gorizia – «non indulgere a facili giudizi e non sostituirsi alla responsabilità di ciascuno». Sarebbe facile concludere che il discernimento è quasi un mezzo per rendere accettabile ogni scelta e azzerare ogni istanza etica. Invece è proprio vero il contrario. Tanto che Redaelli, proseguendo nel suo elenco degli aspetti di grazia, spiega che anche per quanto riguarda l’amore, «i diversi modi di sentire diffusi oggi, pur avendo aspetti di verità, sono spesso riduttivi ». E quindi non bisogna temere di definire “riduttivo” il luogo comune secondo cui «ciò che conta è che due persone si amino, a prescindere da chi sono, dagli impegni che hanno assunto, dalla responsabilità verso altri e anche dalla qualità del loro amore».
Come “riduttivo” è concepire la libertà «come il fare quello che l’individuo ritiene a prescindere non solo dal confronto con ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma anche dalla relazione con le persone e dalla responsabilità verso di esse e verso la comunità». E chi ha un un ruolo educativo che richiede particolare responsabilità deve sviluppare una consapevolezza che va a sua volta inquadrata nelle categorie della grazia. Ma come tradurre queste riflessioni in scelte concrete? Il vescovo è consapevole che sia la realtà, sia il lavoro di discernimento e di approfondimento teologico e pastorale della Chiesa «è in continuo sviluppo » perché deve confrontarsi con tematiche inedite che prima non esistevano o finivano sotto silenzio.
Da qui la necessità di accostarsi a tematiche (come appunto l’amore omosessuale) con umiltà, tanto più «quando si è di fronte a questioni nuove e complesse» sulle quali la riflessione ecclesiale non è del tutto matura e i pareri sono diversi. Lo stesso criterio che deve adottare l’Agesci – conclude Carlo Roberto Maria Redaelli – che ha la necessità di «proporre oggi determinati valori con un approccio diverso rispetto al passato». Vale in particolare per il tema degli affetti e per altri temi «che fino a poco tempo fa non erano neppure quasi ipotizzabili». La scelta insomma non tocca al vescovo con un intervento autoritario dall’alto, ma alle stesse realtà ecclesiali operanti in ambito educativo che, lungo questo percorso di discernimento sicuramente non facile, devono «giungere ad alcune indicazioni condivise e sagge».
LA VICENDA
Una vicenda che ha diviso il paese friulano. Le critiche del parroco, la difesa dell’Agesci
Quando all’inizio di giugno, Marco Di Just, uno dei capi scout del locale gruppo Agesci, ha deciso di fare outing con il compagno Luca Bortolotto, consigliere comunale, “celebrando” un’unione civile in municipio, nessuno nella piccola comunità di Staranzano – settemila abitanti in provincia di Gorizia – si è stupito troppo. Gli orientamenti del capo scout non erano un mistero, anche se l’uscita allo scoperto ha obbligato il parroco, don Francesco Maria Fragiacomo, a criticare la scelta sul bollettino parrocchiale: «Come cittadino ognuno può fare quello che gli consente la legge dello Stato. Come cristiano, però, devo tener conto di quale sia la volontà di Dio sulle scelte della mia vita. Come educatore cristiano, in più, devo tener conto della missione e delle linee educative della Chiesa e della mia associazione cattolica». Da qui la richiesta a Di Just di fare, «per coerenza» un passo indietro. Richiesta che non è stata condivisa né dal viceparroco don Eugenio Biasol, guida spirituale degli scout, presente alla cerimonia come amico dei due giovani, sia dall’Agesci Friuli Venezia Giulia che un post su Facebook ha ribadito la propria fiducia nei capi scout del Gruppo di Staranzano.