Con occhio disincantato e pungente, più di un secolo fa Émile Zola nel suo
Le ventre de Paris aveva messo a nudo l’incapacità di un sistema sociale determinato dall’accumulazione del denaro che cela nell’ipocrisia l’assenza di un effettivo interesse per il bene comune. Una preveggenza di come uomini e donne vengono oggi sacrificati agli idoli del profitto e del consumo nell’indifferenza di quella che papa Francesco ha lucidamente marchiato come «cultura dello scarto». «Un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città costituisce una tragedia, se si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità... Tutti i conflitti bellici rivelano il volto più emblematico della cultura dello scarto », aveva già sentenziato nel primo discorso al Corpo diplomatico nel gennaio 2014. E la sua partenza oggi per il Continente che abbiamo sotto i piedi era forse già preventivata due anni fa. Perché il viaggio di papa Francesco in Africa non è solo verso un altrove, ma un viaggio dentro la nostra cattiva coscienza, nella crisi dell’attuale modello di sviluppo, alla radice dello scarto e dell’esclusione, lì al fondo della dignità stuprata, delle guerre a pezzi macchinate per saziare interessi. «Quando io penso all’Africa – aveva detto Francesco nel volo di ritorno dagli Stati Uniti –, lo dico come esempio, mi viene da pensare: l’Africa, il continente sfruttato. Gli schiavi andavano a prenderli là, e poi le grandi risorse... Il continente sfruttato. E adesso, le guerre tribali e non, hanno dietro interessi economici ». Kenia, Uganda, Repubblica Centrafricana, tre tappe per un unico scenario. Segnate nel passato o nel presente da guerre civili e da violenti conflitti per il potere mascherati con veli religiosi, corruzione, sfruttamento indiscriminato di risorse da parte degli appetiti occidentali e asiatici e dal terrorismo. Proprio la prima tappa è nel Paese dove sono avvenuti alcuni dei più sanguinosi attentati degli ultimi anni da parte dei jihadisti di al-Shabaab. In una terra in cui violenza e terrorismo vengono alimentati dalla povertà e dalla disperazione Francesco ribadirà che invocare il nome di Dio per giustificare stragi è una bestemmia. La vigilia del «Cop21» di Parigi – il summit sui mutamenti climatici – segnerà un momento significativo della tappa kenyota con il discorso al quartier generale dell’Onu in Africa. Nell’enciclica dedicata ai temi dell’ambiente Francesco aveva mostrato come anche la lotta all’inquinamento non può essere disgiunta dalla lotta alla povertà e dalla messa in discussione dell’attuale sistema di sviluppo. Pace e «cultura dello scarto» sono inconciliabili. Su questa antinomìa papa Francesco tesse quindi la tela del viaggio africano andando all’origine della violenza che ci riguarda, di quella cultura dello scarto che non risparmia niente e nessuno: dalle creature agli esseri umani, e perfino Dio stesso, perché il terrorismo in suo nome «è rifiuto è scarto di Dio». «Cultura» che si genera da un’indole che ci accomuna: la mentalità corrente del rifiuto e dell’asservimento dell’altro. È inevitabile che questa «dimensione del rifiuto» – come ha fatto osservare nel discorso al Corpo diplomatico – abbia «una dimensione sociale», perché «una cultura che rigetta l’altro» e lo considera come «oggetto», come «concorrente » o «suddito da dominare», che trasforma in schiavi «ora del potere, ora del denaro, e persino di forme deviate della religione », «finisce per sciogliere e disgregare tutta la società e per generare solo morte». È questa la nostra Africa delle schiavitù ancora schiave. A Nairobi, dove ci sono centottanta baraccopoli, così come nelle altre due nazioni che lo attendono, Francesco privilegerà le vi- site nelle periferie delle periferie, tra i diseredati e nel campo profughi a Bangui. E anche nella seconda tappa, in Uganda, oltre alla celebrazione del cinquantesimo anniversario della canonizzazione dei martiri di Namugongo, saranno i temi dell’esclusione sociale e della piena partecipazione di tutti alla vita della società a essere posti alla nostra attenzione. Le grandi risorse naturali, come le riserve petrolifere nella regione del Lago Alberto, o l’estrazione di oro, diamanti, uranio e l’approvvigionamento di prezioso legname nella Repubblica Centrafricana su cui lucrano traffici illeciti non si traducono in un’equa distribuzione della ricchezza ma acuiscono il divario tra l’oligarchia che detiene il potere e il resto della popolazione. E proprio guardando a quest’Africa parcellizzata, sfruttata come una vacca da mungere, al dilagare di guerre, all’ingiustizia sociale e al terrorismo, Francesco spinge a riflettere sulle cause profonde che li determinano offrendo ciò che impedisce la costruzione di una società fondata sulla pace, in «un tempo – come ha scandito tante volte – che è quello della misericordia ». E proprio nella Repubblica Centrafricana, dove anche negli ultimi giorni sono continuati gli scontri tra le milizie e la città è assediata da 900mila sfollati, con coraggio e senza blindature aprirà a Bangui la Porta Santa del Giubileo. E a Bangui, come anche a Nairobi e a Kampala, Francesco non potrà che favorire il dialogo tra le religioni come necessità vitale, approccio realistico e lungimirante rispetto ai conflitti e alle logiche di potere che segnano la scena internazionale: perché l’incontro e il dialogo interreligioso operano (è nel loro Dna) solo per il bene e possono rendere possibile la pace. La piattaforma interreligiosa serve da modello tanto necessario in Paesi in conflitto e dimostra che la prevenzione e il dialogo sono la chiave per la soluzione di crisi di rifugiati e delle migrazioni forzate. È ciò cui hanno dato vita coloro che sono stati denominati 'i santi di Bangui': il reverendo Nicolas Guerekoyame-Gbangou, presidente dell’Alleanza evangelica, l’imam Oumar Kobine Layama, presidente del Consiglio islamico, e monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui e presidente dell’episcopato centrafricano. Già il 25 marzo i tre leader religiosi hanno potuto incontrare il Papa e il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, ai quali hanno sottolineato che nella Repubblica Centrafricana non si sta combattendo una guerra di religione ma un conflitto per il controllo del potere. L’imam Omar Kobine Layama, che a Bangui ha vissuto qualche tempo nella casa dell’arcivescovo, lo ha ribadito con convinzione: «Noi siamo qui, insieme, per dimostrare che la responsabilità di questa guerra non è da attribuire alle divisioni religiose ma a milizie quali Lra (l’Esercito di resistenza del Signore guidato da Joseph Kony), la Seleka e gli Antibalaka». L’esempio concreto di collaborazione e cooperazione tra i leader religiosi e le loro comunità, nello spirito del Concilio Vaticano II e della
Nostra aetate, è un importante servizio al bene comune. Non è opzionale ma essenziale, e non solo l’Africa ne ha sempre più bisogno. A Nairobi, a Kampala, a Bangui, in tutte e tre le nazioni africane visitate è previsto e significativamente voluto dal Papa l’incontro con i giovani. In Africa – in particolare quella subsahariana – la popolazione giovanile è più che maggioritaria: il 60% ha infatti meno di 25 anni. Se da una parte ci deve essere la responsabilità governativa di garantire la loro sussistenza, dall’altra è sui giovani che poggia il domani. È dunque necessario investire su di essi, incoraggiarne speranze e attese. Le loro risorse contano più del Pil. D’altronde
ex Africa semper aliquid novi, dall’Africa viene sempre qualcosa di nuovo, recita l’adagio di Plinio il Vecchio. Per Francesco è ora una domanda.