La firma del Documento congiunto sul fine vita
Suicidio assistito, eutanasia, obiezione di coscienza, cure palliative: ci sono questi grandi temi del dibattito bioetico, e molto altro, nelle 8 cartelle della Dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche sulle problematiche del fine vita firmata in Vaticano e consultabile sia sul sito della Pontificia Accademia per la Vita (www.academyforlife.va) sia su Avvenire.it (ECCO IL TESTO DEL DOCUMENTO). Frutto di un lungo e paziente dialogo tra autorevoli rappresentanti dell’islam, dell’ebraismo e della Chiesa cattolica (con la Pontificia Accademia per la Vita a tessere la tela), il testo è l’espressione di una convergenza su temi complessi tanto più significativa proprio per il percorso di condivisione del quale è il risultato.
Tanto più significativo perché registra la condivisione di cattolici, ebrei e musulmani su affermazioni come questa: «L’eutanasia e il suicidio assistito sono moralmente e intrinsecamente sbagliati e dovrebbero essere vietati senza eccezioni. Qualsiasi pressione e azione sui pazienti per indurli a metter fine alla propria vita è categoricamente rigettata». La Dichiarazione torna più volte sul concetto, con parole sempre esplicite: «Ci opponiamo a ogni forma di eutanasia – che è un atto diretto deliberato e intenzionale di prendere la vita – cosi come al suicidio medicalmente assistito che è un diretto, deliberato e intenzionale supporto al suicidarsi – in quanto sono atti completamente in contraddizione con il valore della vita umana e perciò di conseguenza sono azioni sbagliate dal punto di vista sia morale sia religioso e dovrebbero essere vietate senza eccezioni».
Nessun operatore sanitario dovrebbe essere costretto o sottoposto a pressioni per assistere direttamente o indirettamente alla morte deliberata e intenzionale di un paziente
Un concetto ribadito dove si parla dei medici: «Nessun operatore sanitario dovrebbe essere costretto o sottoposto a pressioni per assistere direttamente o indirettamente alla morte deliberata e intenzionale di un paziente attraverso il suicidio assistito o qualsiasi forma di eutanasia, specialmente quando tali prassi vanno contro le credenze religiose dell’operatore». Il riconoscimento del diritto di obiettare a leggi ingiuste è il conseguente corollario: «È stato favorevolmente recepito, nel corso degli anni, che dovrebbe essere rispettata l’obiezione di coscienza agli atti che contrastano i valori etici di una persona – si legge nella Dichiarazione interreligiosa –. Ciò rimane valido anche se tali atti sono stati dichiarati legali a livello locale o da categorie di persone. Le credenze personali sulla vita e sulla morte rientrano sicuramente nella categoria dell’obiezione di coscienza che dovrebbe essere universalmente rispettata».
Il punto fermo per le tre religioni è l’origine della dignità umana, messa alla prova quando la malattia diventa grave o terminale: «L’assistenza a chi sta per morire, quando non è più possibile alcun trattamento – scrivono i firmatari – rappresenta da un lato un modo di aver cura del dono divino della vita e dall’altro è segno della responsabilità umana ed etica nei confronti della persona sofferente». Questa stessa dignità che ha la sua radice in Dio ispira e impone la capacità di arrestarsi quando l’intervento clinico, oggi reso sempre più invasivo dalle tecnologie mediche, va oltre il punto di equilibrio con il rispetto della vita stessa, che non dev’essere preservata a qualunque costo: «Gli interventi sanitari tramite trattamenti medici e tecnologici sono giustificati solo nei termini del possibile aiuto che essi possono apportare. Per questo il loro impiego richiede una responsabile valutazione per verificare se i trattamenti a sostegno o prolungamento della vita effettivamente raggiungono l’obiettivo e quando invece hanno raggiunto i loro limiti. Quando la morte è imminente malgrado i mezzi usati è giustificato prendere la decisione di rifiutare alcuni trattamenti medici che altro non farebbero se non prolungare una vita precaria, gravosa, sofferente».
La domanda umana sul finire della vita ha la sua risposta non nelle scorciatoie legali per farla finita ma nell’accompagnamento integrale, altro cardine della Dichiarazione: «Incoraggiamo e sosteniamo una qualificata e professionale presenza delle cure palliative ovunque e per ciascuno. Anche quando allontanare la morte e un peso difficile da sopportare, siamo moralmente e religiosamente impegnati a fornire conforto, sollievo al dolore, vicinanza, assistenza spirituale alla persona morente e ai suoi familiari». Per questo il documento propone un’azione condivisa: «Dal punto di vista sociale dobbiamo impegnarci affinché il desiderio dei pazienti di non essere un peso non ispiri loro la sensazione di essere inutili e la conseguente incoscienza del valore e della dignità della loro vita, che merita di essere curata e sostenuta fino alla sua fine naturale». Per ottenerlo sono anche indispensabili «leggi e politiche pubbliche che proteggano il diritto e la dignità del paziente nella fase terminale, per evitare l’eutanasia e promuovere le cure palliative». Tre gli impegni sottoscritti, infine, sul piano culturale: «Coinvolgere le nostre comunità sulle questioni della bioetica relative al paziente in fase terminale» facendo «conoscere le modalità di compagnia compassionevole per coloro che soffrono e muoiono»; «sensibilizzare l’opinione pubblica sulle cure palliative attraverso una formazione adeguata»; «fornire soccorso alla famiglia e ai cari dei pazienti che muoiono».