Il cardinale Philippe Barbarin (Foto AP)
Un guazzabuglio manzoniano di sentimenti forti scuote la Chiesa francese, dopo la mattinata segnata da un imprevedibile «uno-due» a Lione che non smetterà di nutrire riflessioni e polemiche. Prima, il verdetto nel processo sulle presunte coperture diocesane di abusi su minori in campi scout, con la condanna in primo grado del cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, a 6 mesi con la condizionale, per «omessa denuncia di maltrattamenti». Un giudizio contro cui i legali del porporato presenteranno appello. Poco dopo, all’arcivescovado, il sofferto annuncio del pastore davanti alle telecamere: «Prendo atto della decisione del tribunale. Indipendentemente dalla mia sorte personale, tengo anzitutto a ribadire la mia compassione per le vittime e tutto il posto che con le loro famiglie conservano nelle mie preghiere. Ho deciso di recarmi dal Santo Padre, per presentargli le mie dimissioni. Mi riceverà fra qualche giorno».
Nel processo, avviato nel 2017 con un iter speciale contemplato quasi solo nell’ordinamento francese, ovvero la citazione diretta a giudizio a carico delle sedicenti vittime, sono stati prosciolti gli altri 5 imputati, convocati per le responsabilità passate nella diocesi: Maurice Gardès, oggi arcivescovo di Auch, Thierry Brac de La Perrière, attuale vescovo di Nevers, padre Xavier Grillon, accanto a due laici, ovvero un ex segretario personale del cardinale e una psicologa che era incaricata di ascoltare le vittime.
Gli abusi su minori al centro del processo furono perpetrati fra il 1986 e il 1991 da Bernard Preynat. Il sacerdote, oggi anziano, privato di funzioni pastorali e ancora in attesa di essere processato (un’anomalia evidenziata dalla difesa del cardinale), era all’epoca un cappellano diocesano degli scout. "La Parola liberata", l’associazione di vittime all’origine delle accuse, ha pubblicato su Internet tre lettere private manoscritte con cui Preynat si scusò con i padri di vittime per il "male" compiuto, i "torti", gli "atti colpevoli", esprimendovi al contempo il desiderio di mantenere funzioni diocesane, non a contatto di minori.
In quegli anni, Philippe Barbarin, oggi 68enne, era un prete della banlieue parigina. Nominato nel 1998 vescovo di Moulins, il pastore è poi giunto a Lione come arcivescovo nel 2002, ovvero 11 anni dopo gli ultimi reati contestati a Preynat. Una questione processuale chiave ha riguardato il momento preciso in cui il cardinale ha appreso in modo circostanziato dei trascorsi di Preynat, attivo in diocesi fino al 2015.
Il fossato cronologico fra i reati e l’arrivo dell’arcivescovo a Lione è solo uno dei motivi che nel 2016 avevano spinto la Procura di Lione ad archiviare un’inchiesta preliminare contro il cardinale per le stesse accuse. Del resto, anche nel processo che si è appena chiuso, il pubblico ministero non chiedeva condanne. Nel tempo, persino diverse alte autorità civili di Lione, a cominciare dal sindaco socialista Gérard Collomb, si sono unite al coro di quanti consideravano infondato il castello accusatorio contro l’arcivescovo.
Per queste e diverse altre ragioni, il verdetto ha sorpreso. I legali del cardinale hanno biasimato il clima generale in cui si è svolto il processo. Per Jean-Félix Luciani, in particolare, «era difficile per il tribunale resistere a una tale pressione, con dei documentari, un film. Ciò solleva autentici interrogativi sul rispetto della giustizia». Solo due settimane fa, nei cinema francesi, è uscito il film "Grâce à Dieu" (grazie a Dio), focalizzato in modo alquanto unilaterale proprio sulla dolorosa offensiva giudiziaria contro l’arcidiocesi di Lione da parte delle vittime di Preynat.
Per queste ultime, il verdetto ha rappresentato «una grande vittoria per la protezione dell’infanzia», come ha dichiarato in particolare François Devaux, presidente di "La Parola liberata".
Il processo si è svolto pure sullo sfondo di nuove iniziative vigorose della Conferenza episcopale francese per combattere il flagello della pedofilia. Fra queste, spicca una Commissione indipendente d’inchiesta sugli abusi sessuali nella Chiesa (Ciase), affidata dai vescovi lo scorso novembre a Jean-Marc Sauvé, un ex alto funzionario statale.