
Il nuovo rettor maggiore dei salesiani, don Fabio Attiard (al centro) al 29° Capitolo generale dei salesiani - Ans
Nel lungo ministero di don Fabio Attard, nuovo rettor maggiore, salesiano da 45 anni e sacerdote dal 1987, tra cura pastorale e ricerca accademica c’è la passione per i giovani: dopo essere tornato nel 1991 dalla Tunisia dove ha avviato la presenza salesiana (e imparato l’arabo) è tornato a Malta rettore della Scuola salesiana e dell’oratorio. Dal 2008 al 2020 è stato consigliere generale per la Pastorale giovanile salesiana convincendosi – in sintonia con il tema del 29° Capitolo che lo ha eletto rettor maggiore proprio a Valdocco, dove don Bosco ha iniziato il suo cammino per diventare «santo dei giovani» – che oggi non si può «essere appassionati per Gesù Cristo senza dedicarsi ai giovani». «È il cuore della nostra vocazione salesiana» dice don Attard commentando il tema del Capitolo che la congregazione sta celebrando nel Giubileo della Speranza: infatti la Strenna 2025 aveva come tema “Ancorati nella speranza, pellegrini con i giovani”: «È di qui, da Torino dove è nato il carisma salesiano accanto ai ragazzi più fragili e bisognosi, che vogliamo ripartire».
Per questo per la sua prima uscita da rettor maggiore si è voluto recare lo scorso 3 aprile nell’Istituto penale minorile di Torino “Ferrante Aporti”, dove don Bosco visitava i «ragazzi discoli e pericolanti» reclusi?
È in un carcere minorile che è nato il sistema preventivo di don Bosco e da Torino, dove è nato il carisma salesiano, vogliamo continuare a stare accanto ai giovani che hanno avuto di meno perché, come ci ha raccomandato il nostro fondatore, «in ogni giovane, anche il più disgraziato c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto». Accompagnato dal mio confratello don Silvano Oni ho incontrato i ragazzi detenuti, la maggior parte stranieri di fede musulmana. È stato un incontro molto significativo e commovente, con alcuni di loro ho parlato in arabo e mi sono convinto, come diceva il nostro confratello don Domenico Ricca, storico cappellano del “Ferrante” per 40 anni, che la disgrazia dei minori detenuti è essere nati “nella culla sbagliata”. Proprio come don Bosco scriveva nelle sue Memorie dell’oratorio quando raccontava che, nella Torino dell’800 che ha tante similitudini con le periferie del mondo di oggi, era necessario dare speranza ai giovani più fragili e più poveri.
Cosa aveva capito don Bosco dietro le sbarre?
Scriveva: «Vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire: Chi sa – diceva tra me – se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o al meno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a don Cafasso (il suo padre spirituale, patrono dei carcerati, confessore dei condannati a morte, ndr) e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo». Siamo nel 1855 alla “Generala”, così allora si chiamava il “Ferrante Aporti”: qui don Bosco visita i ragazzi detenuti ed è da quei pomeriggi trascorsi a giocare e a chiacchierare con loro che inventa il sistema preventivo. Per questo da allora i cappellani del “Ferrante” sono salesiani e cerchiamo, sulle orme di don Bosco come accade in tutti gli oratori del mondo, di amare i ragazzi: «Si otterrà di più con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri», scrive ancora il nostro santo. Del resto papa Francesco aprendo la seconda Porta Santa dopo la Basilica di San Pietro nel carcere di Rebibbia ci ha indicato dove dobbiamo portare speranza e consolazione. E la prova che don Bosco aveva ragione e che non abbiamo nulla da inventare se non seguire il suo carisma è che i giovani più poveri e difficili, come quelli che ho incontrato nel carcere torinese, mi hanno ascoltato con attenzione, con occhi svegli. E nel momento del congedo mi hanno detto: ritorna presto. I nostri giovani hanno bisogno di adulti che li ascoltino e non li giudichino.
Lei ha speso 12 anni della sua vita come Consigliere generale per la Pastorale giovanile girando il mondo. Cosa accomuna i giovani? Cosa cercano e quali sono le risposte dei salesiani? Come parlare di Gesù oggi alle nuove generazioni?
Ciò che accomuna i giovani ad ogni latitudine è l’assenza molto grave di adulti significativi che abbiano la pazienza di rispettare la gradualità della loro crescita, che non programmino loro la vita. I figli, i ragazzi e le ragazze, da genitori, educatori, insegnanti, da noi salesiani e da qualunque adulto oggi hanno bisogno di “orecchi” non di “lingue”, hanno bisogno di essere ascoltati non di discorsi. Quando i giovani sentono che c’è una relazione autentica, trovano lo spazio per far uscire quello che hanno dentro il cuore. Allora ti chiedono: professoressa hai 5 minuti? Don hai 5 minuti? E allora io dico sempre ai miei salesiani: quando un giovane ti chiede del tempo molla tutto quello che stai facendo e chiedigli “ciao come stai?”. Quella domanda è una richiesta di comprensione. E se tu adulto trovi quei cinque minuti il giovane si sentirà ascoltato e accudito, capirà che lo stavi aspettando… Quando il giovane ti cerca non possiamo non esserci. Quel “don hai 5 minuti” viene da lontano… E di lì si può iniziare a parlare di Gesù, rispondendo alle loro domande di senso, perché in tutti i giovani di oggi c’è una domanda di senso che grida nel loro cuore. Noi dobbiamo farci mendicanti delle loro domande di senso. Ecco l’annuncio di Gesù Cristo. Così faceva don Bosco giocando, chiacchierando, parlando con i ragazzi che andava a cercare.
Don Fabio, cosa significa essere eletto 11° successore di don Bosco e qual è lo stato di salute della famiglia che si accinge a guidare, la Congregazione più numerosa e più diffusa nel mondo?
Se consideriamo i numeri è chiaro che non possiamo fare a meno di constatare che siamo meno di dieci anni fa; ma se consideriamo il significato che il carisma di don Bosco può avere nel tempo in cui viviamo allora non ci sono dubbi: lo stato di salute della nostra congregazione è che la proposta del nostro fondatore partita qui da Torino con la forza dello Spirito è ancora viva. Lui l’ha fatta partire e noi dobbiamo andare avanti e custodirla. Siamo convinti che questa sia la strada, ce lo chiedono i giovani: la grande sfida è come fare a declinare il carisma, che è un regalo dello Spirito, in questo tempo che ci chiede – come dice papa Francesco – di metterci in dialogo con il mondo, con le culture diverse. È cioè che cerchiamo di fare: nelle nostre scuole e negli oratori sparsi nel mondo ci sono ragazzi di ogni fede e religione ma il messaggio di Gesù è chiaro: accogliamo tutti ma non perdiamo la nostra identità. Dobbiamo essere attenti ai giovani di oggi che vivono, come avverte il Papa, in un cambiamento di epoca, non in un’epoca di cambiamenti. Stiamo attenti a cosa stanno cercando i giovani: non è più quello che cercavano i genitori o noi educatori. Solo così, ripeto saremo buoni salesiani e buoni adulti se ci mettiamo all’ascolto contemplativo del cuore dei giovani, senza dare subito risposte ma per cercare prima di tutto di comprendere le loro domande.