«Parlare a Giornalisti! c’è di che tremare: i Giornalisti sono i professionisti della parola, sono gli esperti, gli artisti, i profeti della parola (…). Parlare a giornalisti! C’è di che temere: essi sono pronti ed abilissimi a carpire una parola, un’allusione, una frase, e a trovarvi dentro cento significati; e ad attribuirvi quello che essi vogliono». Così si esprimeva Paolo VI, il 22 settembre 1963, nel suo primo incontro con l’Unione della stampa cattolica italiana, tre mesi dopo la sua elezione. Sin dagli anni del pontificato di Pio XI la Chiesa si era interrogata sulle potenzialità e le ambivalenze dei nuovi mezzi di comunicazione sociale. Ma se già Pio XII aveva pubblicato nel 1957 una enciclica,
Miranda Porsus, su «cinema radio e televisione», Paolo VI fu indubbiamente il Papa che più di tutti i suoi predecessori conobbe meglio il mondo del giornalismo, avendolo frequentato e praticato sin da ragazzo. Figlio di un giornalista, come amava ricordare (il padre era stato per lunghi anni direttore del quotidiano cattolico bresciano
Il Cittadino) egli stesso, appena maggiorenne, aveva partecipato alla fondazione di un quindicinale,
La Fionda, che seppur ideato e stampato a Brescia e pensato per i giovani studenti cattolici del Nord Italia, fu letto e diffuso nei circoli della Fuci del resto del Paese. Convinto così che anche la stampa cattolica potesse svolgere un ruolo di portata quasi missionaria nei confronti di una società «che tutto ha inventato e scoperto fuorché il Vangelo», Montini, nel periodo in cui fu assistente ecclesiastico della Fuci promosse e stimolò le riviste dell’associazione: su
Studium e
Azione Fucina, da lui ideata, scrisse in pochi anni quasi duecento articoli, mentre nel lungo periodo in cui lavorò in Segreteria di Stato, a lui spettò il compito di seguire
L’Osservatore Romano. Da arcivescovo di Milano, dove si stampava il quotidiano cattolico
L’Italia, Montini prese l’iniziativa di creare in diocesi due periodici mensili ai quali pure collaborò, e istituì in Curia un Ufficio studi con funzioni editoriali e di pubbliche relazioni. Era fermamente convinto che i mezzi di comunicazione potessero essere ausiliari alla Chiesa nel compito di annunciare il Vangelo, attraverso il dialogo – che è termine tipicamente montiniano – col mondo moderno. «Per una fede come la nostra – diceva Montini nel 1962 ai giornalisti de
L’Italia – che ha per primo strumento la comunicazione del pensiero, anzi della verità, questo organo di diffusione della parola di verità, ch’è un giornale cattolico, appare sotto questo aspetto in tutta la sua funzionalità e dignità». Ma già nel 1950, discutendo con l’amico e filosofo Jean Guitton, si interrogava sulla capacità della Chiesa di saper comunicare al mondo la Verità della quale è portatrice: «A cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?». Come è noto, nel dibattito conciliare, la Chiesa si era aperta come non mai alla riflessione sul ruolo e l’importanza dei mezzi di comunicazione sociale, promulgando per primo il decreto
Inter Mirifica. Tutti gli operatori delle comunicazioni sociali, in particolare quelli cattolici, erano chiamati, per Paolo VI, a svolgere quella che egli considerava una difficile ma meritevole funzione di “mediazione”, «che si colloca – spiegava il Papa nell’incontro con la stampa cattolica del 1963 – fra la verità e la pubblica opinione. È vero: voi siete in mezzo fra la verità ed il pensiero della gente, dei vostri lettori; e naturalmente siete in mezzo per trasfondere la verità nell’opinione pubblica». Mediazione, dialogo e incontro col mondo moderno: i termini più usati per definire l’azione pastorale di Paolo VI si adattano dunque perfettamente anche a descrivere il ruolo che spettava per papa Montini al mondo della stampa e della comunicazione. Dobbiamo a Paolo VI la creazione della Pontificia commissione delle comunicazioni sociali (avvenuta il 2 aprile 1964, col motu proprio
In fructibus multis) e l’istituzione, nel 1967, della Giornata mondiale per le Comunicazioni sociali. E fu sempre Montini il primo pontefice a concedere un’intervista ad un giornalista, Alberto Cavallari, il 23 settembre del 1965, pochi giorni prima della sua partenza per New York. Incontrando i vescovi italiani convocati per la prima volta in assemblea generale nell’aprile del 1964, nel suo discorso – riproposto nel maggio scorso da papa Francesco all’attenzione dell’episcopato italiano – tra i quattro punti che Paolo VI poneva alla riflessione dei vescovi, l’ultimo di essi riguardava «la stampa cattolica» che per il Papa era «ancora tanto necessaria, tanto importante per la diffusione dei principi cristiani, per la difesa degli interessi cattolici, tanto opportuna per la formazione di un’opinione pubblica sana e favorevole ad ogni buona causa, ma ancora tanto bisognosa di unità, di sostegno di vigore, di diffusione».L’anno dopo, per espressa volontà di Paolo VI, fu avviato il progetto che avrebbe portato alla nascita di
Avvenire, il primo grande quotidiano cattolico nazionale. Il giornale realmente, e quasi concretamente, fondato da Paolo VI, la cui situazione era spesso il primo argomento di discussione nelle udienze con i vertici dell’episcopato italiano, e che come confidò egli stesso, leggeva per primo al mattino, rappresentava per il Papa uno strumento di unità nel mondo cattolico e sulla base di questa unità, soprattutto uno «strumento di evangelizzazione». In quegli anni la Chiesa italiana si interrogava, per diretta ispirazione di Paolo VI, sulla necessità di nuove forme di evangelizzazione, predisponendo i propri piani pastorali sul tema “Evangelizzazione e sacramenti” e svolgendo, alla fine del 1976, il primo Convegno ecclesiale nazionale dal titolo emblematico “Evangelizzazione e promozione umana”. In queste due parole, correlate perché – diceva Paolo VI – l’evangelizzazione, «porta con sé l’elevazione dell’uomo, ne promuove la dignità, la libertà, la grandezza», possiamo cogliere, in estrema sintesi, il senso profondo dell’intenso magistero di Paolo VI. Ma queste parole possono ben rappresentare anche il mandato che Paolo VI affidava ai cattolici impegnati nel mondo della comunicazione. Ed era il compito che spettava al quotidiano cattolico da lui fondato.