C'è qualche cosa di bello e di giusto in questo viaggio del Papa in Armenia, anche se non di inaspettato. Lo annunciava già da tempo, dal momento della sua elezione tre anni fa, il tamtam della diaspora armena, che viaggia a velocità supersonica – da luogo a luogo, da continente a continente – attraverso i misteriosi, rapidissimi sussurri delle madri armene, sparse in tutti i continenti e legate fra loro da quell’inesauribile continuo scambio di informazioni che ha preso il posto – decennio dopo decennio – del placido chiacchierare intorno al tonir, il forno del pane scavato nel terreno, laggiù nella Patria Perduta.
«In Argentina ha partecipato alle celebrazioni dell’anniversario del genocidio...»; «E ha parlato del nostro dolore, ha ricordato i nostri morti dimenticati da tutti...»; «E adesso che è diventato Papa, si dimenticherà di noi?...», si chiedevano. Non se ne è dimenticato, ha onorato e proseguito la tradizione dei grandi Papi del Novecento che si sono spesi per proteggere, ove possibile, gli armeni durante la tragedia, e aiutarli successivamente, in modo concreto ed efficace. Fu infatti proprio durante la terribile estate del 1915, mentre infuriava lo sterminio del popolo armeno, con quella persecuzione sistematica e capillare che proseguì senza sosta per tutta quella terribile estate, che monsignor Angelo Dolci, delegato pontificio di recente nomina presso l’Impero ottomano, ebbe da Benedetto XV l’incarico di presentare una sua lettera di ferma protesta al Sultano. Ma, benché il potere del Sultano fosse ormai assai limitato, Dolci dovette combattere a lungo con la burocrazia imperiale per consegnare la lettera proprio nelle sue mani, e così essere sicuro che arrivasse a buon fine. Non ottenne molto, comunque. Il governo dei Giovani Turchi, e il triumvirato che lo presiedeva, composto dai “tre pascià”: Talaat (ministro degli Interni), Enver (ministro della Guerra) e Djemal (ministro della Marina e capo dell’armata di Siria), proseguì nella sua politica di eliminazione, anche se qualcosa alla fine dovette concedere all’intrepido Dolci, che si recava ogni giorno negli uffici del governo per chiedere notizie, far presente il contenuto dei dispacci che riceveva dall’interno dell’Anatolia, insistere, supplicare: come la vedova del Vangelo.
I suoi resoconti, e molto altro materiale diplomatico conservato nell’Archivio Segreto del Vaticano, sono stati pubblicati proprio in questi giorni da due ricercatori, con l’editore Guerini a Milano. È un libro prezioso nel quale si assiste allo spettacolo incredibile, in presa diretta, dell’intrecciarsi nella capitale Costantinopoli di diplomatici e banditi di strada, uomini del vecchio potere ottomano e spietati arrivisti, uomini di buona volontà paralizzati dalla paura e persone semplici che diventano eroiche. Le loro azioni rimbalzano nelle province, dove i popoli delle minoranze si dibattono fra morte e deportazione, e i numeri della strage diventano in pochi mesi spaventevoli. Prima e oltre i commenti e le analisi successive, balza fuori con commovente immediatezza la viva, palpitante realtà di un Paese in guerra che – invece di combattere il nemico esterno – stava sterminando con successo i suoi stessi inermi cittadini. Fu in seguito lo stesso Benedetto XV che, dopo la fine della guerra, aiutò moltissimi bambini armeni e stabilì un grande orfanotrofio nella villa papale di Castelgandolfo. Ma quando si cominciò ad alzare il decennale velo di silenzio sul genocidio degli armeni, e ci furono i primi riconoscimenti ufficiali della realtà del Metz Yeghèrn (il Grande Male), Giovanni Paolo II compì il primo viaggio ufficiale nella neonata Repubblica d’Armenia, il piccolo Stato nato dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Era il millesettecentesimo anniversario della conversione dell’intera Armenia al cristianesimo, un primato che la rende ancora oggi orgogliosamente attaccata alla sua fede, mantenuta attraverso tante peripezie, massacri, conversioni forzate, e simbolicamente presente in tutto il Paese, con le sue suggestive croci di pietra, le sue chiese di cristallo, i suoi monasteri.
Fu proprio prima di riprendere l’aereo per Roma che Giovanni Paolo usò la famosa «parola che comincia per G», e citò alcuni versi del poeta martire Daniel Varujan, che fu fra i primi deportati del 24 aprile 1915, provocando le stizzose e offensive risposte dei giornali turchi. Ma in questi giorni di fine giugno è papa Francesco che suggella, ritornando in Armenia, la sua solenne proclamazione del 12 aprile 2015, quando non solo pronunciò la parola proibita – riferendosi ai tragici eventi del 1915 – ma fece dottore della chiesa il grande mistico medievale Gregorio di Narek, un vero, originalissimo genio letterario e religioso. Gli armeni sono abituati all’insignificanza. Sono cent’anni che chiedono invano, che un silenzio vellutato copre la loro voce e la loro esistenza, sia in diaspora che nella piccola patria ex-sovietica: e nella Patria Perduta in Anatolia le loro tracce sono state cancellate, perfino i nomi dei luoghi sono scomparsi. La negazione del genocidio ha inciso sulla loro sofferenza, rendendola muta e insieme malata, come una piaga occlusa che non si rimargina. E hanno perciò bisogno non solo di quel pacifico riconoscimento che è loro mancato così a lungo, ma anche della tenerezza di un balsamo, delle parole di un padre. E se l’affermazione decisa e solenne del Bundestag tedesco è stata importantissima, il viaggio di Francesco conferma per loro questa consolazione e questo rifiorire di speranza, perché ricollega il necessario giudizio sul passato all’incerto presente, alle luci e ombre di questa nazione coraggiosa ma assai fragile, attorniata da vicini pericolosi e immersa in una situazione interna non brillante, con forti dislivelli sociali, che negli ultimi anni ha però avuto il coraggio di accogliere con larghezza gli armeni siriani in fuga da un ennesimo sterminio.