mercoledì 9 aprile 2025
Paesi come il Vietnam e lo Sri Lanka, ma anche molti Stati africani, sono fortemente legati alla produzione di merci a basso costo. «Con le tariffe Usa ora rischiano il baratro»
Lavoratori nel settore del tessile in Lesotho

Lavoratori nel settore del tessile in Lesotho - Reuters

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Nella nuova era del protezionismo made in Usa, quanto può resistere un modello economico di crescita basato, in molti Paesi del cosiddetto Sud globale, quasi soltanto sulle esportazioni? E siamo sicuri che quel modello avrebbe comunque ancora lo stesso futuro, quello che ha funzionato ad esempio per la Cina, forse la più grande storia di successo nella lotta alla povertà? Nei giorni scorsi, dopo che Donald Trump aveva mostrato al mondo la sua lavagnetta con le nuove tariffe doganali frutto di calcoli da più parti definiti «grossolani», tra i primi a contattare la Casa Bianca sono state le autorità del Vietnam. Da un lato i leader vietnamiti hanno offerto allo stesso Trump di ridurre a zero i loro dazi sui beni Usa, dall’altro hanno chiesto una proroga di «almeno 45 giorni» rispetto all’entrata in vigore dei dazi Usa al 46% sulle merci provenienti da Hanoi. «Si vedrà», la risposta interlocutoria di Trump. L’obiettivo del governo del Vietnam è una crescita, quest’anno, dell’8% del Pil, ma con i nuovi dazi Usa, avvertono gli analisti, si rischia di non andare oltre il 4,5%. In mancanza di grandi alternative produttive, significherebbe licenziamenti, meno entrate per lo Stato, meno risorse per sanità, scuola, infrastrutture.

Lavoratori nel settore del tessile in Lesotho

Lavoratori nel settore del tessile in Lesotho - Reuters

Quello del Vietnam è un caso esemplare che riguarda molti Paesi del sud del mondo nell’attuale economia globalizzata. Da anni l’industria manifatturiera globale ha puntato su una strategia precisa per questi Paesi: renderli connessi alle catene del valore globali semplicemente facendoli diventare la “fabbrica del mondo” perché potessero produrre ed esportare i loro beni verso l’estero. Verso il nord del mondo, in particolare, che si è così avvantaggiato di merci a buon mercato grazie ai costi di manodopera estremamente più bassi. Ha funzionato così a suo tempo per le cosiddette “Tigri del sud-asiatico”, da Hong Kong a Taiwan alla Corea del Sud. Ha funzionato, appunto, per la Cina, che ha via via saputo sottrarre interi comparti di manifattura al resto del mondo.

I dazi di Trump mostrano ora tutti i limiti di questa “strategia”: un terzo del Pil di Paesi come Vietnam e Cambogia, tra i più “puniti” dalle nuove tariffe doganali Usa che entrano in vigore oggi, arriva dall’export, grazie alla produzione di calzature, abbigliamento, elettronica. Anche lo Sri Lanka vedrà applicarsi dazi Usa al 44% sui suoi prodotti tessili, una mannaia per un Paese che sta provando faticosamente una via d’uscita dal default sul suo debito del 2022. Ma il prezzo rischia di essere salato anche per diversi Stati africani, dove molti governi, considerando l'impatto delle misure protezionistiche americane sulle loro economie già fragili, vedono prospettive cupe. L’industria tessile sviluppatasi in Paesi come il Lesotho e il Madagascar attorno a prodotti come i jeans denim – e che si avvantaggiava finora di un trattamento preferenziale di accesso al mercato Usa tramite l’accordo commerciale Agoa – rischia di essere spazzata via, lasciando allo sbando popolazioni che hanno redditi medi poco sopra i mille dollari annui. Anche una potenza economica regionale come l’Etiopia ha corteggiato negli ultimi anni investitori stranieri con l’obiettivo di diventare un importante centro di produzione del tessile, delle calzature, degli accessori, con l’obiettivo di rafforzare le esportazioni. Un salario d’ingresso in Cina, d’altronde, è arrivato a quasi 500 dollari, in Etiopia dieci volte meno.

La Borsa di Hanoi, in Vietnam

La Borsa di Hanoi, in Vietnam - Ansa

La strategia economica legata quasi totalmente all’export ha però già lasciato dietro di sé molte crepe, in termini di aumento delle disuguaglianze, condannando questi Paesi a non sviluppare un adeguato mercato interno e a non creare posti di lavoro decenti in termini di salari e diritti. Senza contare che l’innovazione tecnologica e l’automazione rende progressivamente meno appetibile, in alcuni casi, l’asset principale (e in molti casi unico) di queste economie: la manodopera a buon mercato. Nonostante i progressi degli ultimi anni, la Cambogia resta al 148° posto su 193 Stati secondo l’Indice di sviluppo umano dell’Onu. Lo Sri Lanka naviga tra riserve estere inadeguate e politiche fiscali tutt’altro che efficienti. Secondo diversi osservatori, la sfida per questi e molti altri Paesi del Sud del mondo votatisi alla manifattura – molti di loro sono anche toccati pesantemente dal congelamento dei fondi di cooperazione americani di Usaid - è di provare a sviluppare una politica economica diversa e complementare, investendo in infrastrutture e integrazione dei mercati regionali, rendendo più efficace e resiliente l’agricoltura, sostenendo la crescita di una classe media e la produttività dei servizi domestici. Rendere più dinamico il settore privato, questo sì in cooperazione con il Nord del mondo, vorrebbe dire attirare capitali stranieri che possano contare su ritorni economici anche sul versante locale. Il mercato di libero scambio africano, entrato ufficialmente in vigore nel 2021 ma che ancora sconta ritardi nella sua fase operativa, potrebbe, secondo gli organismi regionali, riuscire ad incrementare del 45% le esportazioni intracontinentali, per un valore commerciale di 275 miliardi di dollari. La sua implementazione accelererebbe anche la transizione energetica, con una stima di investimenti cumulativi, stando a dati della Commissione economica per l’Africa, di 22 miliardi di dollari per le infrastrutture necessarie alla generazione e distribuzione dell’energia, l’80% dei quali nelle rinnovabili.

Per molti osservatori l’obiettivo, insomma, non dovrebbe essere solo o tanto spostare il lavoro dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, o dai Paesi poveri a Paesi più poveri, ma sbloccare opportunità diverse, in Stati anche fortemente indebitati come quelli africani. Il dividendo demografico del Sud globale sarebbe allora sì motore di crescita e di un modello economico in grado di non divaricare gli squilibri con il Nord del mondo, dazi o non dazi.

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