La sua morte violenta, dieci anni fa, resta misteriosa. Perché se è vero che evoca quella di Martin Luther King, Gandhi, Romero..., il priore di Taizé non è stato assassinato in una lotta da nemici implacabili. I fatti sono andati diversamente. «Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15,25). Difficile trovare un motivo in quello che si spiega solo come il gesto folle di una giovane che oggi vive in un ospedale psichiatrico. Sì, aveva ragione frère François a fare queste riflessioni e a scrivere che frère Roger «non è stato ucciso per una causa che difendeva», bensì «a causa di ciò che era». Ed era davvero – così lo ricordo – l’innocenza disarmata, la fiducia totale, la capacità di scrutare, la tenerezza che soffia nelle pieghe più recondite. Qualcosa d’insopportabile per una mente disturbata e preda di conflitti. Come una luce fortissima, fastidiosa, appunto, da spegnere. Tuttavia, chi ha spento gli occhi stanchi di frère Roger, niente ha potuto sulla luce che continua a riverberare sulla collina della Borgogna, che rischiara pensieri e gesti rinnovati lungo direttrici antiche e nuove, una segnaletica dove le indicazioni esortano ad anticipare la riconciliazione; provocare scambi di doni; condividere la fede; far nascere nuove solidarietà; scoprire la bellezza della preghiera e della vita in comune… Ne è convinto anche frère Alois, sessantun’anni, origine tedesca e nazionalità francese, cattolico, che prima di diventare priore di Taizé (in pectore già nel 1978, annunciato da frère Roger alla Comunità nel 1998, di fatto alla guida da dieci anni) ha coordinato numerosi incontri internazionali dedicandosi all’ascolto e all’accompagnamento dei giovani, alla musica e alla liturgia. Ho avuto la gioia di condividere con lui diversi colloqui confluiti in un libro e so quanto sia attesa la sua presenza per un incontro di preghiera il prossimo 17 ottobre a Sotto il Monte (Bergamo). A proposito del 16 agosto di dieci anni fa, il suo racconto fissa sequenze indelebili: lo choc, l’immediato perdono, la pace, tappe di un’avventura che continua rinnovandosi. «Ero a Colonia, per la Giornata mondiali della gioventù, nel 2005 – racconta – quando venni informato della morte violenta di frère Roger. Rientrai subito a Taizé viaggiando in auto tutta la notte, assumendo l’indomani mattina l’incarico che mi aveva affidato». Una notte incancellabile. «Ma, dopo il colpo, io ancora mi stupisco di essermi così sentito nella pace. Avevo fretta soprattutto di raggiungere i fratelli», continua Alois, che ci ha spiegato più volte che il tema non dovrebbe essere più l’ecumenismo, ma il Vangelo, la presenza di Cristo. «Se noi ci attorcigliamo solo attorno al tema dell’ecumenismo, noi sottolineiamo innanzitutto la separazione. Dobbiamo invece riunirci sottolineando prima di tutto l’unità, che già esiste, che è sì incompleta, imperfetta, ma è qualcosa di reale. Che è già il Cristo stesso che ci unisce: detto con le parole di frère Roger il “Cristo di comunione”!». Parole che vanno persino oltre un’idea di vita cristiana dove anticipare l’unità tra credenti di diverse confessioni: un’idea, insomma, dilatata a superare le altre divisioni – motivo di scandalo – in quella che dovrebbe essere semplicemente la famiglia umana. È quanto si percepisce negli spazi della comunità dove parole e gesti, canti e silenzio, comunione e solidarietà, rispondono ad una chiamata di fedeltà al Vangelo. Quella Parola che, sosteneva frère Roger già prima del Concilio, andava incarnata nella storia. La Comunità non dimentica il fondatore, né il suo pensiero. Dopo la sua morte si è unita ancor di più. «È stata uno choc – dice il priore – ma questo durissimo colpo ci ha avvicinato gli uni gli altri. Nutriamo una grande riconoscenza per ciò che è stato per ciascuno di noi, per la Chiesa e per molte persone al di là della Chiesa. E questo resta vero anche per i fratelli più giovani che non l’hanno conosciuto. Per tutta la sua vita ci ha mostrato la strada sulla quale continuare. Durante il pomeriggio della sua morte aveva cominciato una frase che non ha terminato: “Nella misura in cui la nostra comunità crea nella famiglia umana delle possibilità per allargare…”. Poi affaticato ha taciuto. Non sapremo mai cosa ha voluto dirci. Cosa intendeva dire con quella parola: allargare...”. Probabilmente voleva invitarci a fare di tutto per rendere più percettibile l’amore che Dio ha, senza eccezione, per tutti gli uomini, tutti i popoli. Tocca a noi finire quella frase... Spetta a noi trovare vie ancora sconosciute per “allargare il luogo della nostra tenda” (
Is 54,2): verso nuove solidarietà, in particolare con i più poveri».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Frère Roger Schutz