Il presidente del Consiglio, Mario Draghi - ANSA
Continuano a circolare timori e drammatizzazioni irrazionali su un confronto parlamentare su Ucraina, armi e allargamento della Nato, ora chiesto in via ufficiale dal M5s. Un appuntamento trattato alla stregua di un’ordalia anziché di un normale dibattito tra forze politiche, chiamate alla responsabilità di dover rendere conto a milioni di cittadini preoccupati dalla necessaria solidarietà da garantire agli ucraini invasi, ma anche dalle conseguenze di un conflitto in cui comunque siamo già immersi e che rischia di trascinarsi per lunghi mesi ancora. A questo confronto vengono attribuiti contorni drasticamente ultimativi, gli stessi che nello stesso tempo sono evitati invece a livello europeo, dove egoisticamente fanno un po’ comodo a tutti le bizze del premier ungherese Orbán e dei suoi amici che allungano i tempi del rafforzamento delle sanzioni. Così, mentre a Bruxelles si discute all’infinito, a Roma si vorrebbe limitare il confronto. Adducendo, fra le varie motivazioni, anche quella che Mario Draghi non accetterebbe di mettere in discussione il suo mandato politico. Mandato che, fino a prova contraria, a gennaio 2021 fu individuato nella lotta alla pandemia e in una valida applicazione dei contenuti del Pnrr, non certo nell’invio senza limiti né dibattito di armi agli ucraini in una guerra che era in corso dal 2014, ma che avevamo catalogato "a bassa intensità". Compito di ogni premier è stabilire l’indirizzo politico del governo, ma anche tenere nel dovuto conto la volontà del Parlamento che gli ha dato la fiducia. A maggior ragione in tempi in cui la funzione legislativa delle Camere è già parecchio svuotata dall’esecutivo. Non si può ignorare, facendo un po’ il processo alle intenzioni, che nel "ravvedimento" di Giuseppe Conte, presidente dei 5 stelle, a oltre due mesi dal voto che a marzo accompagnò il primo decreto sull’invio di armi, possa pesare una componente legata agli interessi elettorali del M5s: smarcarsi dal resto della maggioranza, per evidenziare una "diversità". Sapendo, nel caso si arrivasse a un voto (che Palazzo Chigi non vorrebbe in vista del Consiglio Ue straordinario di fine mese), che un’eventuale linea distinta renderebbe sì più sfilacciata la maggioranza del governo Draghi, ma non la farebbe venir meno sul piano matematico. Non per forza, insomma, la sopravvivenza dell’esecutivo dovrebbe vacillare davanti a un dibattito. A meno di un’esplicita scelta di Conte e dei suoi, che aprirebbe allora le porte a una nuova maggioranza per gli ultimi mesi di legislatura o a una crisi verticale (Letta dixit). In ogni caso, in una democrazia parlamentare dovrebbe essere la norma "ritarare" ogni tanto la linea in tempi di guerra, soprattutto non dichiarata, nei quali il quadro complessivo è in continua evoluzione. E appare persino diminutivo dell’esperienza e della sagacia del premier, da lui mostrate anche nel recente viaggio negli Usa in cui ha spiazzato chi lo pensava semplicemente "adagiato" sulle posizioni della Casa Bianca, pensare che Draghi abbia di che temere dal confronto. Che agli occhi dei cittadini farebbe chiarezza, in trasparenza, sulle posizioni dei vari partiti. A meno che non sia questo il loro vero timore.