Il centro detenzione migranti di Zawiya, a 30 chilometri da Tripoli (Ansa)
Non ci sono solo gli “sbarchi fantasma", ma anche le morti che alcuni governi europei e le autorità libiche preferiscono occultare. «Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita durante la cattività, in mano ai trafficanti, uccisi a colpi di arma da fuoco, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o perché vengono negate le cure mediche». Non è che una delle decine di accuse che circolano a Ginevra durante la 41esima sessione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu.
La Libia è uno dei temi chiave, perché tra il mare e il deserto anche i diritti umani sono ormai un miraggio. «In tutta la Libia vengono scoperti – si legge in uno dei report – corpi non identificati di migranti e profughi con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni. Spesso i loro resti vengono rinvenuti tra cumuli di spazzatura, nel letto di fiumi in secca, non lontano dalle fattorie e nel deserto».
Le Nazioni Unite sanno, e hanno le prove. A giorni la procuratrice della Corte penale internazionale dell’Aia depositerà un nuovo aggiornamento, e ancora una volta le autorità libiche ne usciranno a pezzi. «La frequenza dei casi di stupro ai danni delle donne che sono transitate in Libia – confermano i documenti degli ispettori Onu – è corroborata da una pletora di fonti». La stragrande maggioranza «delle donne e adolescenti intervistate nel 2017 e nel 2018 ha riferito di essere stata violentata da trafficanti in Libia o di aver visto donne portate via e tornare sconvolte, ferite e con i vestiti strappati».
I responsabili hanno nomi e cognomi. Spesso indossano una divisa e incassano uno stipendio grazie a finanziamenti dell’Unione europea. «Le autorità pubbliche, inclusa la Direzione per la lotta alla migrazione illegale e la Guardia costiera libica, sono accusate di essere coinvolte in gravi atti di violenza e che tali crimini sono spesso associati a un’impunità diffusa», si legge in altri documenti messi a disposizione del Consiglio per i diritti umani.
Impunità che permette ai libici di ricattare l’Europa e specialmente l’Italia. Ieri mattina diverse fonti a Tripoli hanno riferito che nel giro di qualche ora, due giorni al massimo, la cosiddetta guardia costiera di Tripoli avrebbe annunciato lo stop alle operazioni di intercettazione dei migranti in mare. Un annuncio minacciato già in altre circostanze, e regolarmente seguito dalla promessa di altri fondi ed equipaggiamento. Puntuale, ieri sera, è arrivata dal governo di Roma la promessa di altre 10 motovedette che potrebbero essere consegnate ai libici già entro agosto.
Nel corso delle audizioni, tra cui quella promossa dall’Associazione internazionale dei giuristi democratici, i delegati di alcuni Stati e i rappresentanti di diverse organizzazioni internazionali hanno chiesto ad “Avvenire” maggiori dettagli su una inchiesta portata all’attenzione del Consiglio, in particolare il caso di Bija, un trafficante di esseri umani destinatario del blocco dei beni da parte delle autorità libiche, tornato però a comandare alcune motovedette nell’area di Zawyah, dove sono riprese le partenze di migranti.
«Gravi atti di violenza, tra cui uccisioni illegali, torture e maltrattamenti, stupri e violenze sessuali, abusi fisici, estorsioni, minacce e intimidazioni sono commessi contro i lavoratori migranti e i membri delle loro famiglie», spiega un altro dossier, vessati «da funzionari dello Stato, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e gruppi criminali, dentro e fuori i centri di detenzione formali e informali».
Nel Palazzo delle Nazioni, arriva anche la denuncia di Amnesty International che ha ottenuto immagini satellitari che documentano come la violenza scoppiata il 4 aprile abbia costretto oltre 100 mila civili ad abbandonare le abitazioni. Soprattutto «l’embargo sulle armi avrebbe dovuto proteggere la popolazione civile della Libia – dice Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty per Medio Oriente e Nordafrica –. Stati come la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia lo stanno violando clamorosamente».