Don Malgesini - Foto Augusto Santini / Immagilario
Sulla cattiva strada raccoglieva i cocci degli scartati. Uomini senza niente con il passo pesante di chi sulle spalle porta i macigni che nessuno vede. Gli sbandati che non sanno più dove hanno cominciato a deragliare e quegli altri che lo sanno benissimo perché sono finiti tra gli ultimi della fila. Italiani, stranieri, donne e anche bambini, sbarcati in Italia da terre lontane e poi incagliati in questa città sul confine. Padri messi alla porta o figli persi dietro alle promesse di un Lucignolo (qui tutti gli articoli su Roberto Malgesini).
L’eredità di don Roberto Malgesini, ucciso il 15 settembre da uno dei disgraziati a cui spesso aveva aperto la porta, non è solo nella carezza al povero, nella cura del mendicante o nel pane spezzato di notte sotto ai portici dell’abitato che scende a valle fino al lago. Il suo lascito è il «sì» pronunciato ancora per chi suona al citofono dell’antica canonica di San Rocco.
Vengono qui per ricaricare la batteria dei telefoni. Restano qui per sentirsi come gli altri. Ci sono i somali che giocano a shangai, e dietro alle mascherine si sganasciano dalle risate per ogni bastoncino sfilato via senza smuovere il mucchio. E’ in fondo la metafora delle loro esistenze: sopravvivere anche quando tutto crolla addosso. Il ragazzo di Mogadiscio ricorda ancora la carestia del 2011. Aveva fame, ma meno di stasera. All’altro capo del tavolo di legno scuro un altro apre l’album da disegno e traccia linee color pastello: gli alberi della savana, il profilo di una donna che continua a sognare, i serpenti che da bambino gli mettevano paura. Poi, giunto il momento di lasciare la piccola Babele entro l’ora del coprifuoco, fa per tornare nel buio, verso un giaciglio di fortuna in un qualche casale abbandonato, non prima di avere rimesso in ordine i disegni che passerà a completare anche domani.
Ora ci sono tanti giovani volontari che ne raccolgono l’eredità
Quando c’era don Roberto quasi non ci si stupiva più del quotidiano miracolo della moltiplicazione delle derrate. Raccontano i volontari come capitasse di andar via al mattino, dopo il giro delle colazioni, con lo scaffale dei biscotti mezzo vuoto. E di tornare alla sera per preparare la distribuzione del giorno dopo, scoprendo che di roba qualcuno ne aveva regalata a sufficienza anche per la settimana a venire. Ora i ragazzi di don Roberto devono fronteggiare il gran numero di candidature per il servizio di volontariato. E i donatori che si presentano a sorpresa. Come quel pasticciere che ora si è aggiunto e fa a gara con gli altri tre, e stanotte dal laboratorio ha portato panettoni artigianali che profumano di crema al pistacchio.
Chissà che non sia questa solidarietà spontanea e informale l’eredità civile di don Malgesini. La politica, che non lo aveva mai capito e anzi spesso lo aveva avversato, adesso fa i conti proprio con quell’ex bancario divenuto prete di montagna, venuto per cercare nel pieno centro della città elegante come la sua seta la gente delle periferie esistenziali. Un segno di contraddizione, che comincia a fare breccia. Prendete l’amministrazione pubblica. Fratelli d’Italia, mica gli “immigrazionisti buonisti”, ha rotto il fronte mettendo a repentaglio l’alleanza in giunta con la Lega. E lo ha fatto per un motivo: sostenere insieme all’opposizione la concessione di locali comunali per l'associazione “Como Accoglie”, che fornisce assistenza a migranti e senzatetto, a cento passi dalla chiesa di don Roberto.
Senza tetto alla stazione di Como - Archivio Avvenire
Il dolore, però, non passa ancora. Il vescovo Oscar Cantoni lo ha confessato ai giovani nella lettera per l’Avvento: «Era per me come un figlio e un carissimo amico. Vi confido che la sua morte mi ha addolorato in modo profondissimo». Tante volte il presule aveva protetto don Roberto anche da chi avrebbe voluto “regolamentare” quel suo modo d’essere sacerdote che camminava lieve in mezzo alle spine. «Siamo persone piene di grazia, perché piene del coraggio di Dio», diceva don Roberto Malgesini. E questo gli bastava. Non aveva mai voluto declinare la sua missione pastorale in una struttura organizzata e la diocesi non vuole vada perduta questa testimonianza. «Sono certo che il suo sacrificio d’amore – sono parole del presule – spalanca alla Chiesa e a tutta la società la possibilità di una straordinaria inimmaginabile fecondità, che tocca a noi sviluppare con determinato coraggio evangelico». Ogni giorno che passa alla biografia di don Roberto si aggiungono testimonianze che, in silenzio e senza clamore, vengono raccolte sapendo già che verrà il momento in cui decidere se avviare una causa di beatificazione. «Per questo – ha scritto Cantoni –, anche la sua storia merita di essere conosciuta perché nasconde molte ricchezze e doni nascosti, alcuni dei quali, stiamo scoprendo solo ora nei tanti frutti di bene che ha seminato, in modo umile e discreto». L’immagine della missione che si era dato è anche in un’altra foto inedita ottenuta da Il Settimanale”, il periodico della diocesi di Como: don Roberto è su una barca, mentre regge un salvagente, cona la croce di legno al collo. E’ con quello spirito che andava tra i figli “sbagliati”, i detenuti del carcere del Bassone, l’istituto costruito lontano dagli occhi della città nel quale talvolta spesso sostituiva il cappellano. Oppure all’ospedale Sant’Anna, il grande nosocomio dove don Malgesini accompagnava spesso con la sua Panda tuttofare i poveri o gli anziani. Finiva sempre che medici e infermieri gli chiedevano una preghiera o una benedizione.
Laura, che ha preso in mano il gruppo di volontari nel momento più difficile, dice che è normale, che lei e gli altri non stanno facendo niente di straordinario. Qui ognuno fa quel che può, nel tempo in cui può. Si fa il bene, non per mestiere. C’è Alberto che dopo il lavoro stasera è venuto per il turno di notte. C’è Tommy, che per scrivere la tesi di laurea è andato in Iraq. Quattro chiacchiere, poi c’è da mettere l’acqua a bollire per preparare litri di thè caldo, la spremuta, il latte, i biscotti, disporre i croissant delle pasticcerie nei contenitori secondo le norme anti–covid. Le 6 arrivano in fretta, quando ricomincia il giro tra i senza dimora. Nonostante i dormitori invernali, alcuni aperti dopo la morte del sacerdote, tra le 50 e le 70 persone continuano, per scelta o per mancanza di alternative, a dormire senza un tetto.
Al piano di sopra c’è “la stanzetta”. Hanno lasciato tutto così com’era. I sandali consumati del sacerdote, i suoi libri, i simboli sacri. Ai volontari non piacciono le domande personali. A dirla tutta, non amano molto avere i giornalisti tra i piedi. Niente di personale, è solo che vogliono restare «invisibili tra gli invisibili». Niente da nascondere: «Ma devono parlare le opere».
Chi stava vicino a don Roberto ricorda bene le notti in preghiera, nella sua camera, tra le immagini di Madre Teresa, i libri di Papa Francesco, le immaginette di san Giovanni Paolo II, il piccolo presepe, il breviario e il treno prima dell’alba lungo la ferrovia che sale di fianco. In cima alla pila di libri ce n’è uno di Carlo Maria Martini e a fianco dom Helder Camera, l’arcivescovo Brasiliano che di se diceva: «Se do da mangiare a un povero dicono che sono un santo, se chiedo perché è povero mi danno del comunista».
Più che una camera o una cella da monaco, sembra nient’altro che una cappella con un semplice letto. Laura ha il solito cruccio. Troppo facile e consolatorio dipingere don Roberto come un santo, quando invece ha mostrato che ciascuno può condividere con gli ultimi anche un piccolo pezzo di strada. Semmai vuole che si sappia che «don Roberto era una persona lieve». Come la neve della sua Valtellina, che scende piano, senza fare baccano. Ma poi dalla notte al giorno cambia il paesaggio.