martedì 2 giugno 2009
Incredibile decisione nel Comune romagnolo: sulle lapidi permessi solo nome e cognome.Vietati i simboli religiosi. Poi la parziale retromarcia: documento non vincolante.
  • IL COMMENTO: Insopportabile livellare la morte di Carlo Cardia
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    Via i simboli religiosi dalle lapidi. È questo l’incredi­bile contenuto del docu­mento uscito dalla giunta del Comune di Lugo, paese roma­gnolo in provincia di Ravenna, a proposito degli ' arredi' delle tombe nella parte nuova del ci­mitero. Salvo rettifiche, imbasti­te un modo po’ confuso dal sin­daco del centrosinistra Raffaele Cortesi per precisare che, in realtà, ciò che sta scritto nero su bianco nel testo comunale in realtà, non si deve intendere al­la lettera. I fatti. All’inizio di maggio la Giunta approva l’allegato tecni­co alla sua delibera numero 102: «Precisazioni operative per la realizzazione delle finiture dei manufatti funerari nel campo di inumazione»; un testo di poche pagine dove si descrive per filo e per segno come devono esse­re fatte le lapidi della parte nuo­va del Cimitero, nonché l’arre­do dell’area che ospita le inu­mazioni. Una carrellata di indi­cazioni minuziosissime sulla grandezza dei caratteri da uti­lizzare per le scritte (persino il formato tipografico delle lette­re, «Arial» o «Futura», da giusti­ficare a destra sopra le date di nascita e di morte), il colore del­la cornice della foto («rigorosa­mente in metallo cromato non lucido e di dimensioni massime pari al formato A6 » ) e la posi­zione da destinare al vaso per i fiori. Il tutto sottoposto ad un’unica, sconvolgente, indicazione ge­nerale: « Sulla lapide saranno ammessi solamente i seguenti elementi: dati anagrafici e foto­grafia ». Un avverbio, «solamen­te » , dal significato chiaro: via qualunque altra cosa. Simboli ed altri elementi religiosi compre­si. Divieto per esclusione. In­tenzione reiterata poche righe sotto: «Le scritte ammesse sulla lapide sono 2: nome e cognome; data di nascita e di morte». Il tut­to condito con altri scivoloni in qua e in là nel testo, dove si pre­cisa che «per l’intero campo di inumazione non è previsto al­cun sistema di illuminazione vo­tiva » e che «l’intera area desti­nata a sepolture non prevede l’impiego o il posizionamento di altri manufatti di qual si voglia foggia o utilizzo». Una frase, quest’ultima, che pre­senta poche ambiguità in una regione come l’Emilia Romagna dove il regolamento di Polizia mortuaria, approvato nel 2004, non prevede l’erezione di cap­pelle nei cimiteri, scaricando spese e responsabilità ai Comu­ni. Caso probabilmente unico a livello nazionale. La notizia viene ripresa dai me­dia e mette sotto sopra l’opinio­ne pubblica. Supportata dal ca­so di una signora lughese rivol­tasi ad un avvocato dell’Adicon­sum cittadino dopo la risposta arrivata dagli addetti agli uffici del Comune: « Dicono che la scelta di evitare segni sia stata presa per non urtare le diverse sensibilità religiose». Dopo la frittata arriva tuttavia la precisazione del sindaco: non e­ra intenzione della Giunta vie­tare simboli religiosi. In realtà l’allegato tecnico non sarebbe vincolante, avrebbe assicurato il sindaco direttamente al vesco­vo di Imola, Tommaso Ghirelli. La vicenda ha tuttavia lasciato l’amaro in bocca a tanti perché rispecchia per lo meno, volendo credere alla buona fede degli at­tori, un modo burocratico e tec­nicistico di intendere le aree di sepoltura; con attenzione nulla alla tutela del sentimento reli­gioso del popolo. Per Paolo Ca­vana, docente di Diritto eccle­siastico alla Lumsa di Roma, «il testo fa cogliere una precisa vo­lontà di escludere i simboli reli­giosi, spingendosi più in là del­la Francia, notoriamente uno dei Paesi più laicisti d’Europa, dove i rimandi alla religione sono banditi dai luoghi pubblici fatta esclusione proprio per i campo­santi. Se si pensa che i cittadini italiani di religione ebraica, se­condo l’Intesa con lo Stato, han­no diritto a spazi propri nei Ci­miteri, nel rispetto delle proprie modalità di sepoltura, si capisce come si rischi in Italia di discri­minare sempre più solo i catto­lici, che nel Paese sono la mag­gioranza ».
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