«Quando stravinci devi restare con i piedi per terra». È una delle regole auree di Matteo Renzi. Applicata alla lettera, sinora, in due occasioni: dopo la vittoria delle Europee e dopo il varo del Jobs act. Ecco l’occasione giusta per fare tris, il sì alla «riforma che resterà nei libri di Storia».
Aplomb istituzionale, distacco simulato dalle emozioni dello staff e del gruppo parlamentare, la scena lasciata a Maria Elena Boschi e «ai nostri magnifici senatori». L’unico gesto simbolico è la convocazione a Palazzo Chigi di Pier Carlo Padoan e di tutti i tecnici dei dicasteri, per mostrare che il primo ministro italiano non si perde nelle autocelebrazioni ma già lavora alla prossima tappa: la legge di stabilità. «Una manovra che lascerà il segno», promette. La verità è che Renzi è un vulcano che vorrebbe esplodere e correre per i corridoi di Palazzo Chigi come se la Fiorentina avesse vinto lo scudetto. «Sì, siamo più forti e autorevoli di prima. L’anno scorso, in questi giorni, il Senato ci mandò a Bruxelles con in tasca il Jobs act. Quest’anno abbiamo fatto di più, andiamo a trattare la nostra manovra mettendo nel piatto il provvedimento che risolve il più grande problema del Paese, l’ingovernabilità. Sapeste i miei colleghi primi ministri: mi prendevano in giro quando dicevamo che avevamo questo progetto... La flessibilità ce la siamo guadagnati », confida il premier anticipando il discorso che terrà oggi alla Camera e al Senato in vista del Consiglio Ue di domani sera. Ma non c’è tempo per fare l’analisi del successo in Aula. «I numeri parlano da soli: 179. C’è già la maggioranza per le ultime letture», sintetizza il premier. Il tema vero per Palazzo Chigi è che da oggi, esattamente da oggi, parte la fasedue della legislatura. Legge di stabilità pro-crescita, Giubileo, interventi su Terra dei fuochi, Bagnoli e Ilva, conclusione dell’iter della riforma entro aprile, poi la sfida più difficile, le amministrative di maggio, e infine, a ottobre 2016 il referendum confermativo. Dopo il voto popolare, poi, l’inizio della 'fase-tre' del suo governo che porterà dritto al 2018: «Da oggi è chiaro che la legislatura finisce alla scadenza naturale, abbiamo due anni e mezzo per finire il lavoro». Non è vero dunque che Renzi non sta pensando al futuro perché troppo impegnato nel giorno per giorno. Anzi. I comitati referendari, ad esempio, sono a un punto di elaborazione teorica molto avanzato. Non saranno solo sedi aperte con manifesti e striscioni per dire «sì» alla riforma. Il premier vuole molto di più. Sul progetto metterà Boschi e il governatore emiliano Bonaccini, forse quelli che, insieme a Lotti, hanno la migliore attitudine all’organizzazione. L’idea è costruire un soggetto che non coincida al 100 per cento con il Pd, ma vada oltre, coinvolga giovani, universitari, 'gente del fare'. Non potendo e non riuscendo a scardinare le sezioni locali dei democratici, spesso dominate da dirigenti pieni di voti, il premier vuole creare attraverso i 'Comitati del sì' quella nuova classe dirigente alla quale sinora non si è potuto e voluto dedicare. E in fondo l’esito delle amministrative di maggio dipende da due fattori: dal traino della campagna referendaria e dall’impatto sull’economia reale della manovra in elaborazione. Ma c’è anche un altro punto che il premier ha ben chiaro. Essendo quello del prossimo ottobre un referendum confermativo, senza quorum minimo, non bisogna sottovalutare la capacità di mobilitazione di M5S per il «no». E questo timore si trasforma in un obiettivo: portare alle urne più della metà degli italiani per far esprimere quella maggioranza silenziosa che, il premier ci scommette, approva le sue riforme e la riduzione del numero dei parlamentari. Solo dopo il test dell’autunno 2016 Renzi è pronto ad aprire un tavolo esplorativo sull’Italicum. «Oggi il tema non è all’ordine del giorno, ma per noi niente rappresenta un tabù», spiegano alcuni senatori renziani entrando in Aula prima del voto finale sulla riforma costituzionale. Poco dopo le parole di Giorgio Napolitano confermano che qualcosa si può muovere: «Bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali», spiega l’ex capo dello Stato. Opinione personale, ovviamente, ma autorevole e ascoltata con grande attenzione a Palazzo Chigi per un motivo semplice: da quest’ultimo voto la maggioranza che sostiene il governo esce azzoppata nella componente centrista, davvero sull’orlo di una scissione perché l’ala che non vuole abbandonare l’identità di centrodestra, guidata da Gaetano Quagliariello, non è più disposta a prendere schiaffi. Il premier il sostegno di Area popolare non lo vuol perdere, riconosce al partito di Alfano di aver consentito l’avanzamento delle riforme. Ha tutto l’interesse a ri-legittimare Ap dopo un periodo difficile. Le opportunità ci sono: il rinnovo delle commissioni parlamentari che, avvisa Pietro Grasso, avverrà a metà novembre, dopo la prima lettura della legge di stabilità. E poi c’è il rimpastino di governo che Renzi vede a fine anno, con diverse poltrone da viceministro (Attività produttive e Sud in primis) e da sottosegretario che possono ridare serenità ad Area popolare. Terzo punto per dare ossigeno ai centristi, la riapertura di una trattativa sull’Italicum, ma rigorosamente nell’ultimo anno pieno della legislatura, nel 2017, e solo con il recupero al tavolo di Forza Italia. Senza garanzie - inoltre - di arrivare davvero a cambiare il testo, perché questo 'maggioritario di lista' a Renzi continua a stare bene così. Però attenzione. La disponibilità di Renzi a favorire l’unità di Area popolare potrebbe non bastare. Ieri le dichiarazioni in Aula di Quagliariello sono state nette: «Si è chiusa una fase politica». Il discorso del coordinatore Ncd sembrava più rivolto ad Alfano che al premier. Il senso era questo: «Scegliamo di diventare la corrente centrista del Pd oppure proviamo a ricostruire il centrodestra? Se l’ipotesi-madre è la prima, allora noi non ci stiamo...». Non sono pochi gli alfaniani scettici pronti a uno strappo per «non morire renziani». In tale scenario il premier, consapevole di non poter arrivare al 2018 attraverso l’asse con Verdini che alimenta continue tensioni con la sinistra Pd, cambierebbe pista operativa: il referendum non sarebbe più il 'lancio' dell’ultimo scorcio di legislatura, ma il lancio di una campagna elettorale anticipata. A maggior ragione se Berlusconi e Forza Italia dovessero davvero mettersi nei 'Comitati per il no' insieme a Lega ed M5S. La vittoria nel referendum rappresenterebbe, per Renzi, una specie di schiaffo collettivo a tutte le opposizioni e l’accreditamento del Pd come Partito della nazione che fa da baluardo contro estremismi e populismi.
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