I ragazzi accolti dalla cooperativa “La Strada” impegnati in un'attività
Piazza Rosa, deserto di Corvetto. Poco dopo mezzogiorno tre bimbi giocano con un cane tra le aiuole riarse dal sole bollente del luglio milanese, avranno sì e no 8 anni: nessun adulto attorno, «perché qui funziona così, i piccoli scendono in strada, se va bene si butta un occhio dal balcone, sennò sono già soli a quell’età» racconta il barista all’angolo.
I balconi sono quelli delle case popolari, crocevia di umanità e di etnie: via Bolla – teatro a inizio estate della maxi-rissa tra occupanti abusivi – è dalla parte opposta della grande città, le signore in coda dal panettiere ripetono che «qui no, qui non potrebbe succedere mai una cosa così». E però l’illegalità è all’ordine del giorno, le violenze frequenti, gli appartamenti, spesso fatiscenti, in larga parte sono occupati, «quelli che si svuotano perché qualcuno finisce in galera vengono rioccupati, e rioccupati ancora». La legge è farsi i fatti propri, senza guardare, come la nonnina che vive nella “scala San Vittore”: «La chiamano così perché tutti gli altri condomini sono agli arresti domiciliari». Fossero gli anziani, il problema. Alle periferie di Milano – e non solo di Milano – il buco nero sono quei bambini soli, che soli (invisibili prima, rassegnati poi, arrabbiati e violenti infine) diventano grandi.
L’argine all’abisso si chiama cooperativa "La Strada", una porta sempre aperta su via Piazzetta, accanto a un grande murales. «Quando non vedi la via puoi trovare la strada» recita, e vorrebbe suonare forte come un grido nei quartieri dimenticati da tutti. «Perché tutte le volte che un ragazzo entra qui, e si presenta, noi incontriamo una ragazzo già smarrito» racconta il direttore generale Paolo Larghi. La favola tranquillizzante del “tanto sono tutti stranieri” si sgretola davanti ai numeri: la metà degli adolescenti presi in carico nel centro diurno (una settantina, segnalati dai servizi sociali o dal penale per la messa alla prova) è italianissima, l’altra metà appartiene a famiglie che nel nostro Paese sono arrivate da due o tre generazioni. Stranieri solo per cognome, o per colore della pelle: le cose del tutto inutili su cui si concentra certa politica, quando i problemi da affrontare sono ben altri. «Primo fra tutti, offrire loro delle opportunità – spiega il presidente della cooperativa, Gilberto Sbaraini –. Quelle che non hanno trovato mai e che col tempo si sono abituati a non cercare».
Prendi quei bimbi soli in strada a giocare, falli crescere in famiglie fragili e poverissime, nella legge dell’illegalità diffusa (e del tutto incontrastata), mandali nella scuola di quartiere dove vanno i figli della scala accanto e di quella accanto ancora, dove vivono le stesse famiglie fragili e povere, dove domina la stessa legge e dove vince sempre il più forte (cioè quello che ruba, spaccia, delinque): «In chi e cosa possono identificarsi nel loro percorso di crescita? In quelli come loro – continua Paolo Larghi –, quelli che appartengono alla loro scala, alla loro cultura, se sono stranieri alla loro etnia». Ed ecco le bande, ecco la questione dell’“appartenenza”, che in periferia troppo spesso significa rispondere all’unica proposta a cui sei chiamato: la strada, appunto. La tacca sulle sospensioni a scuola, il branco, le prime bravate, poi giù, giù, lungo il piano inclinato che porta tutti allo stesso percorso: «Le medie affrontate svogliatamente e superate in 4 o addirittura 5 anni, le superiori mai cominciate o lasciate al secondo semestre. A 16 anni sono sospesi nel nulla, per uno o due anni vivacchiano, poi cercano un lavoro, spesso precario e sottopagato, perché sono del tutto privi di competenze. Questo è l’identikit tipo dell’adolescente di Corvetto».
Alla "Strada" si tenta il percorso opposto. I ragazzi – che il centro sono costretti a frequentarlo dalle due alle quattro volte a settimana, a seconda delle indicazioni dei servizi – vengono catapultati in una situazione di gruppo sana, dove condividere esperienze del tutto nuove per loro: coordinarsi in un’attività di gruppo, partecipare a un laboratorio, studiare e leggere tutti insieme seguiti da un educatore. E ancora: andare al museo, fare una gita fuori città, immaginare un lavoro che non sia necessariamente il meccanico. Sembra una ricetta banale, per alcuni corrisponde a una rivoluzione: «Il nostro lavoro è rendere stabili alcuni punti di riferimento – continua Larghi –. Avere degli appuntamenti fissi, delle situazioni che si ripetono sempre uguali, con le stesse regole, è già dirompente per questi adolescenti. In alcuni casi hanno il tempo di scoprire, per la prima volta, d’esser capaci di fare qualcosa».
Torna in mente la storia di Said, che era arrivato da solo su un barcone a 12 anni: rimbalzato di comunità in comunità, di affido in affido, poi l’approdo in Corvetto per un percorso assistito. «Lo seguimmo fino alla licenza media, durante il tirocinio scoprì la passione per la cucina, in particolare per i dolci». Oggi Said lavora in una delle più famose pasticcerie del centro e torna qui, di tanto in tanto, per dire grazie. Il suo successo è la molla per continuare nonostante i fallimenti, che purtroppo sono tanti e spesso sono dettati anche dalle leggi assurde della burocrazia: accompagnare gli adolescenti difficili con figure di educatori professionali in percorsi dedicati ha un costo, irrisorio rispetto a quello (non solo economico) del carcere, delle comunità di recupero o dei reparti di neuropsichiatria sempre più affollati di adolescenti negli ospedali, «ma questo costo, tutto di prevenzione, le istituzioni spesso scelgono di non pagarlo» spiega Sbaraini. Lui la considera la grande contraddizione del nostro tempo, e di Milano in primis: «Una città che si fa il lifting ma non cura i suoi tumori», cioè le periferie dimenticate. Succede, così, che sui ragazzi si scelga di risparmiare: due giorni al centro diurno al posto di quattro, un solo intervento educativo domiciliare a settimana (la cooperativa offre anche questo servizio, destinato ai bimbi più piccoli al centro di situazioni problematiche) quando per seguire un piccolo e accompagnare la sua famiglia ne servirebbero almeno tre. E sarebbe solo l’inizio.