Caro direttore,
dunque, a breve la proposta di legge sulle unioni civili sarà incardinata al Senato. Sono convinto che una legge sia da fare. Ce lo chiedono la giurisprudenza della Corte costituzionale e le istituzioni della Ue. Sbagliano coloro che vi si oppongono per ragioni di bandiera, mossi più che da un dissenso di merito dalla esigenza, tutta politica, di marcare il territorio e di mettere a verbale la propria autonomia/differenza dentro la maggioranza di governo rischiando (anche, come è stato, con migliaia di emendamenti inutilmente ostruzionistici) di far portare direttamente in aula un testo privo del relatore senza che la Commissione competente abbia avuto modo di concludere esame e discussione. E tuttavia, sul fronte opposto, sbaglia chi si fa prendere dalla fretta e dall’ossessione di ostentare la propria determinazione riformatrice.
È un po’ quel che si è messo in scena con la Costituzione: l’importante sarebbe fare presto più che fare bene. È vero che, in entrambi i casi, si tratta di riforme attese da gran tempo, ma appunto per questo non sarà la settimana o il mese in più a cambiare la sostanza delle cose. Sono materie delicate e complesse, per le quali si dovrebbe rovesciare la massima che sembra guidare governo e premier: meglio nessuna riforma piuttosto che una cattiva riforma.
Anche la disciplina delle unioni civili è, per sua natura, terreno di divisioni, che semmai prescrive una mediazione alta e lungimirante, una soluzione che resista alla prova del tempo. Tutte ragioni che avrebbero dovuto suggerire un accurato e compiuto esame in Commissione, cioè nella sede parlamentare che più favorisce il confronto e le soluzioni condivise. Problemi ancora ve ne sono. Due in particolare, puntualmente segnalati da Cesare Mirabelli nell’intervista ad Avvenire: la sostanziale equiparazione al matrimonio e l’adozione dei figli naturali di persone dello stesso sesso scaturiti da una precedente relazione.
Ancora l’articolato va ripulito dei sistematici rimandi al codice civile ove si parla di matrimonio. Non si può contraddire il principio del favor familia. Pena derubricare a mera cosmesi nominalistica l’enunciato iniziale ove l’aggancio costituzionale è fissato nell’art. 2 della Costituzione, concernente le «formazioni sociali», e non nell’art. 29, riferito alla «famiglia». Insomma l’unione intesa quale istituto specifico e chiaramente distinto dal matrimonio. Non aiutano le parole della relatrice che ha più volte parlato della mediazione sull’art. 1 come una concessione nominalistica ai cattolici (!?) priva di concreto significato e di pratiche conseguenze. Vi è poi la questione sensibile delle adozioni. Sulla quale, anche dentro il Pd, allignano opinioni diverse, a smentita di chi proclama il contrario.
Vi è chi suggerisce di espungere la norma per rinviare a una organica revisione dell’istituto delle adozioni oppure avanza l’idea di una forma di affido che, solo alla maggiore età, potrebbe essere trasformato in adozione frutto di libera scelta.
Infine, due rilievi rispettivamente inerenti ai cattolici e alla sinistra. In passato le gerarchie esercitavano aperte sollecitazioni sul legislatore in nome dei cosiddetti "princìpi non negoziabili". La circostanza che ora i pastori siano più inclini al rispetto dell’autonomia delle istituzioni civili e a quella dei laici cristiani in esse impegnati non esonera costoro, ma all’opposto li responsabilizza a una coerenza soggettiva e oggettiva. Circa la sinistra, ho già avuto modo di manifestare una impressione/preoccupazione. Quella di uno scambio asimmetrico: in un tempo in cui la sinistra non oppone resistenza alla compressione dei diritti sociali e del lavoro, essa si illude di essere risarcita con un “di più” di diritti civili. Ignorando che una certa interpretazione esasperatamente individualistico-libertaria dei diritti civili non è esattamente in linea con una visione personalistica e solidaristica della società che pure dovrebbe ispirare una sinistra degna di questo nome. Non uno scambio alla pari, ma un doppio smacco.
*deputato del Pd