Tre semplici parole: «Ospedali psichiatrici giudiziari». Un termine asettico, che nasconde la realtà (infernale) degli ultimi manicomi d’Italia, sopravvissuti tenacemente alla riforma Basaglia. Basta fare una ricerca su Youtube per imbattersi in un filmato angosciante, realizzato dalla Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficienza e l’efficacia del Servizio sanitario nazionale. Sguardi persi nel vuoto, mani che tremano reggendo una sigaretta. Letti di contenzione con tanto di cinghie e un buco sul materasso, all’altezza del bacino, per permettere il passaggio di feci e urina.Un uomo batte disperatamente le mani contro un vetro: «Sono innocente, fatemi uscire. Mi hanno chiuso qui dentro a morire». Si accascia in ginocchio, a mani giunte, implorando giustizia. Pavimenti sudici, letti lerci. Ad Aversa, nelle torride estati, è prassi comune mettere le bottiglie d’acqua negli scarichi del bagno, per tenerle al fresco. In queste condizioni vivono a oggi 1.338 persone. Uomini che hanno commesso un reato, ma sono stati riconosciuti incapaci di intendere e di volere. Nei loro confronti il giudice ha quindi disposto una misura di sicurezza che, nei casi più gravi, può arrivare all’internamento.«Nel 1973, gli internati erano 1.453 – osserva però Dario Stefano dell’Aquila, dell’Osservatorio nazionale carceri dell’associazione Antigone –. Ma nel 1997 gli internati erano poco meno di mille». Paradossalmente, nel momento in cui c’è la massima attenzione da parte della politica su questo tema, il sistema degli Opg deve far fronte con un bacino di persone che è quasi identico a quello di 40 anni fa. E lo "svuotamento" previsto dal Dpcm del 1° aprile 2008 procede a rilento. Fra il 1° luglio e il 14 novembre 2011, secondo i dati della commissione presieduta da Ignazio Marino, gli internati degli Opg erano 1.404. Di questi, 446 (pari al 31,7%) sono dimissibili, ma finora solo 160 persone (il 35%) sono tornati in libertà. Per la maggioranza (il 63%) c’è stata una proroga della misura di sicurezza. «Da un lato c’è la crisi del sistema della salute mentale, che rende più difficile l’uscita da queste strutture – spiega Dell’Aquila –. D’altra parte, però, sempre nuove persone continuano a entrare in Opg». Il "rubinetto" che alimenta il bacino degli ospedali psichiatrici giudiziari infatti, non è ancora stato chiuso ermeticamente. «I giudici devono applicare i codici che hanno a disposizione – commenta Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale –. Deve innanzitutto accertare, avvalendosi di un perito, se la persona può affrontare il processo e se è pericolosa socialmente. Se l’imputato viene dichiarato incapace di intendere e di volere, si applica la misura di sicurezza e di conseguenza l’internamento». È il caso, ad esempio, del giovane senegalese Abdou Lahat Diop: arrestato il 16 dicembre scorso per resistenza a pubblico ufficiale, è stato giudicato incapace di intendere e di volere, nonché pericoloso socialmente. «Chi ha eseguito quella perizia non conosceva nemmeno Abdou – commenta Roberto Loddo, del comitato sardo "Stop Opg" –. Ma sulla base di questo documento, il giudice ha stabilito il suo internamento». Solo la mobilitazione del comitato e il ricorso presentato dall’avvocato Dario Sarigu hanno impedito che il giovane senegalese venisse rinchiuso ad Aversa. «Ma la nostra battaglia continua: ci sono ancora 35 cittadini sardi internati – conclude Loddo –. Chiediamo che la Regione Sardegna, insieme alle Asl e i Dipartimenti di Salute Mentale, si mobilitino per assistere e curare i nostri cittadini sardi internati, nei propri luoghi di residenza».Per mettere definitivamente la parola fine sugli ultimi manicomi, Unasam e tutte le associazioni aderenti al comitato Stop Opg sottolineano l’urgenza di agire su più versanti: «Procedere con le dimissioni degli internati che possono lasciare queste strutture, portando avanti progetti personalizzati – spiega Gisella Trincas –. E soprattutto fermare a monte l’ingresso di nuovi internati attraverso una revisione del codice penale».Altro nodo critico il perverso meccanismo delle proroghe delle misure di sicurezza. Che si protrae fino a quando il magistrato di sorveglianza ritiene che la persona sia pericolosa, o quando l’internato non più pericoloso non ha nessuno che possa prendersi cura di lui. Come è successo a Michele Veronese, 56 anni, deceduto lo scorso 2 gennaio all’interno dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto: «Era entrato qui per scontare un anno di casa di cura e custodia. Ma il suo "ergastolo bianco" andava avanti da più di sei anni. Aveva alle spalle dieci proroghe della misura di sicurezza», ricorda il cappellano don Giuseppe Insana.