domenica 24 novembre 2024
Dalla pacca sul sedere alle frasi sessiste in bocca a colleghi o superiori, in che modo tutto ciò che causa limitazioni alla libertà delle donne può essere riconosciuto come violenza?
Un cartello durante una manifestazione per le donne

Un cartello durante una manifestazione per le donne - Ansa

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Non c'è "solo" il femminicidio, non c'è "solo" lo stupro. La vita delle donne è spesso costellata di piccole-grandi violenze quotidiane: psicologiche, fisiche, economiche... Dalla pacca sul sedere alle frasi sessiste in bocca a colleghi o superiori, in che modo tutto ciò che causa limitazioni alla libertà delle donne può essere riconosciuto come violenza? E cosa si intende per "cultura dello stupro"? A questa e altre domande risponde Elena Biaggioni, avvocata trentina specializzata in violenza di genere e vice presidente di D.i.Re., Donne in rete contro la violenza.

Molti episodi di molestia, verbale, psicologica, economica, sono frequenti nella vita delle donne, dal più innocuo - la pacca sul sedere o la frase sessista" vengono spesso sottovalutati. Si tratta di violenza?

(Risponde Elena Biaggioni) Questa domanda permette di chiarire un cortocircuito anche di comunicazione che interviene spesso. Si parla molto di femminicidio e di stupro, le forme più estreme di violenza sulle donne; ma la violenza è molto altro, molto più estesa e assume varie forme. La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale che pervade tutta la società e che si compone di forme subdole, in cui - come stiamo facendo ora - ci si chiede addirittura SE sia violenza. Se un borseggiatore rubasse un portafoglio davanti a noi non avremmo dubbio alcuno a definirlo furto. Quando vediamo un uomo che si masturba davanti a una ragazza ci chiediamo se è violenza, così come ci chiediamo se la mano sul sedere è violenza. Eppure basta domandarsi se siamo di fronte a violazioni della libertà delle donne, della sovranità sul nostro corpo, della possibilità di muoverci liberamente senza essere molestate. Se ci facciamo le domande giuste, la risposta diventa chiara: sì, tutto quello che è raccontato in queste pagine è violenza.

Alcuni degli episodi più frequenti (l'inseguimento in strada, il controllo del cellulare, il palpeggiamento molesto ) si configurano anche come reati a tutti gli effetti?

In moltissimi casi la violenza maschile alle donne configura anche ipotesi di reato. Come detto sopra, però, la sfida è riconoscere la violenza, indipendentemente dal fatto che sia denunciata o che sia oggetto di un procedimento penale. Per tornare all’esempio di prima, la mano sul sedere è riconosciuta nel nostro ordinamento come violenza sessuale: è un reato, come è reato il furto del portafogli. Ma la capacità di riconoscere il palpeggiamento come condotta socialmente inaccettabile è una questione diversa. Sul furto siamo tutti d’accordo, invece la mano sul sedere viene banalizzata, magari anche con una risata, con un “non esagerare”, come se fosse un fatto da nulla. Su questo c’è molto lavoro da fare: le molestie sessuali in pubblico hanno un impatto grave sulla libertà delle donne. Lo stesso vale per le violenza meno visibili, la violenza psicologica e la violenza economica. Si tratta di violenze che il nostro ordinamento riconosce come ipotesi di reato, ma poiché sono poco visibili, sono spesso trascurate o minimizzate.

In che modo la sottovalutazione di questi episodi configura una “normalizzazione” della violenza?

Banalizzare la violenza è uno dei modi di occultarla, renderla invisibile e poco importante. È un modo per silenziare le donne che la subiscono, che per evitare di essere tacciate come esagerate semplicemente non ne parlano e non denunciano. Se non si riconosce che la mano sul sedere è una forma di violenza che ha conseguenze sulla vita di una donna, e non si pensa al fatto che chi la sperimenta cercherà successivamente di evitare di muoversi da sola o con i mezzi pubblici, magari chiamando un taxi con spese aggiuntive, oppure non uscendo la sera, accetto quella violenza e la reputo un fatto “normale”. In tal modo contribuisco a una società diseguale, che accetta che le donne possano subire violazioni dei loro diritti. Quel che si deve evitare è dare per scontati questi comportamenti e dunque accettarli. Al contrario, quel che si può e si deve fare tutte e tutti come società è riconoscere la violenza, non giustificarla e sostenere le donne che la denunciano.

Cosa si intende quando si parla di cultura dello stupro?

Quando si parla di cultura della stupro ci si riferisce alle singole persone, ma anche a media, istituzioni, magistratura e forze dell’ordine, servizi sociali, che nelle loro attività giustificano certi atteggiamenti e che li riducono a situazioni poco importanti. L’insieme di questi approcci crea una situazione in cui alle donne non si crede, si invertono le responsabilità (sono le donne a dover evitare di essere molestate o violentate) e la violenza prospera.

Le donne hanno strumenti per far sentire la propria voce? Quali e come?

Le donne parlano ed è importante che siano ascoltate da persone competenti e preparate. È importante creare un contesto di ascolto non giudicante in cui ogni donna può raccontare la propria storia, può nominare la violenza e tutto quel che comporta. I Centri antiviolenza sono nati per avere un luogo di donne per donne in cui parlare liberamente della violenza maschile e in cui trovare ascolto e anche soluzioni specifiche. Rivolgersi a un Centro antiviolenza è un primo passo importante per far sentire la propria voce e per ritrovarla potenziata dall’accoglienza di altre donne. Insieme alle operatrici, si possono fare valutazioni sulle singole azioni da intraprendere per uscire da situazioni di violenza, anche per denunciare. Esiste anche una chat introdotta di recente dalla rete D.i.Re per parlare proprio di queste forme di violenza, quelle che sono spesso minimizzate. Esiste il numero nazionale 1522, e ovviamente per le situazioni di urgenza va sempre richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.

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