"Restare non è un affare". Quell'invito (da rigettare) ai giovani del Sud
sabato 13 luglio 2024

È una massima della progettazione in architettura che “Dio – e cioè il far bene – è nei dettagli”, la dobbiamo a Mies Van der Rohe, uno dei padri del movimento moderno in architettura. Dio, ma anche il diavolo. È quello che mi è venuto in mente leggendo su un quotidiano del Sud, articolazione pugliese del più autorevole quotidiano italiano, un inopinato editoriale rivolto ai maturandi pugliesi, un invito a guardare fuori regione per realizzare le loro aspettative, a cogliere le opportunità loro offerte dalle aree più attrezzate del Paese. Diciamo il Nord, se proprio non vogliono uscire dai confini nazionali. Il titolo è tutto un programma: “Perché restare non è un affare”. Un invito a questi ragazzi a non farsi affascinare dalla “restanza”, cioè dalla voglia dei giovani meridionali di restare al Sud e di contribuire al suo sviluppo e alla realizzazione al Sud di sé stessi. Un neologismo intellettualmente felice nel lessico e nelle analisi, che si deve a Vito Teti, antropologo culturale dell’Università della Calabria, e che riarticola la lezione del compianto Franco Cassano, già sociologo all’Università di Bari, sul pensiero “meridiano”, che cioè era venuto il momento per il Sud, per il suo riscatto, di non pensarsi più “come non-ancora-Nord” e di elaborare un punto di vista autonomo, non subalterno, di sé stesso.

L’editoriale del pregiato quotidiano pugliese è un eduardiano fuitivenne!, senza però la disperazione di Eduardo, ma razionalmente pianificato. Con chirurgica freddezza. Però, al di là della domanda che vi si può emotivamente opporre: “Cosa cambia tra ‘deportare’ e creare il vuoto per costringere a partire?”, aiuta a capire, a dare un senso alla richiesta di autonomia differenziata e rafforzata del Nord. Un senso “razionale”, nonostante le obiezioni economiche, sociali, politiche, geopolitiche, che al mandare in frantumi l’unità del Paese, o almeno a ridurla a collage di autonomismi regionali ingestibili. Obiezioni venute da tutte le parti e ad ogni livello su una riforma che, oltre a far male a Sud e al Paese, fa male anche al Nord. Dove potrebbe essere la “razionalità” di questa riforma, almeno per il Nord? Ecco, questo aiuta a capire questo inopinato fuitivenne!, che abbiamo potuto leggere. E per capire bisogna partire dalla questione demografica che affligge l’Italia. Di qui a fine secolo rischiamo di essere la metà. Si fanno sempre meno figli, e sempre più, quando ci sono, sono figli unici.

Questa situazione ha bisogno di un cambio di narrazione, che “copra” l’autonomismo che serve alla bisogna per risolvere il problema a vantaggio del Nord. Almeno nel breve, medio periodo, cioè, sottrarne il sistema sociale, economico, produttivo, amministrativo agli effetti del collasso demografico, in cui è coinvolto, e maggiormente, con tutto il Paese. E la narrazione che serve è questa: il capitale giovanile pregiato meridionale ha al Nord più facili e agevoli possibilità di realizzazione. Non ha senso attendere (o contribuirvi) un riscatto del Sud, per il quale non ci sono né risorse né politiche. Tradotto nelle ragioni che la motivano questa narrazione significa: il sistema industriale, sanitario, produttivo, amministrativo, formativo (universitario e, per quanto riguarda la docenza, scolastico) ha bisogno, stante la derivata demografica del suo territorio, di utenti e di forza lavoro per non essere costretto ad una contrazione, ad una ristrutturazione al ribasso. Le aree produttive, economiche, sociali, da ristrutturare al ribasso o finanche da chiudere sono al Sud. È un processo in atto da tempo, si tratta di razionalizzarlo e di metterlo “a norma” istituzionalmente e amministrativamente: l’autonomia differenziata serve a questo; il paese, come una lucertola intrappolata in pericolo deve amputarsi della sua coda. Nel nostro caso fondamentalmente mangiandosela.

Con la sanità e il curarsi al Nord sono decenni che questa amputazione di servizi al Sud va avanti: serve a fornire utenza al servizio sanitario del Nord. Con l’università è altrettanto in atto una dinamica simile. Ci si iscrive al Nord, perché tanto è lì che si lavorerà. Con l’aggravante che questo trasferimento di utenza formativa non è occasionale ma strutturale: serve a tenere aperti gli atenei del Nord mentre chiudono quelli del Sud (invitati a recuperare studenti dall’altra sponda del mediterraneo se ci riescono) e a tenere in piedi in prospettiva il sistema del Nord.

L’autonomia è funzionale a questo: rendere più “attrattive” le regioni del Nord – in crisi demografica e a rischio di “sostituzione etnica” con nativi non italiani, più difficili da integrare e da far diventare “nordisti” – per l’emigrazione meridionale. Il Sud nel migliore dei casi basterà che venga aiutato a restare nei limiti del possibile “culla d’Italia” fino ai diciott’anni, e non ha senso finanziargli più di tanto un sistema sociale e produttivo da cui i nativi dovranno emigrare. Al più il Sud potrà offrire servizi turistici ed agricoli e, se è capace, formativi al Nord-Africa, di aiuto domani a portarvi un po’ di influenza italiana, di Made in Italy nelle mani del Nord. E questo è lo sviluppo del mezzogiorno che ci propongono. Se questo è il progetto paese che hanno in mente i promotori dell’autonomia, allora forse è meglio cominciare a pensare al Sud, che se da soli, se assegnati a questo destino, allora facciamo da noi ma senza subalternità “italiane”, a un’Italia che il Sud continua non a non riconoscerlo, ma a riconoscerlo solo come una risorsa da depredare. Ovviamente è una provocazione, ma una subalternità strutturale e pianificata del Sud al Nord non è accettabile. E il tema bisogna porselo.

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