martedì 29 giugno 2021
49 migranti morti asfissiati nella stiva del barcone nel 2015, c'è attesa per la sentenza della Cassazione. E loro si difendono: "Abbiamo pagato anche noi per venire in Europa, non siamo assassini"
una delle continue manifestazioni in piazza in Libia a difesa dei "calciatori"

una delle continue manifestazioni in piazza in Libia a difesa dei "calciatori"

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Il sogno di una vita nuova, lontano dalla guerra e dalla violenza si è fermato a Caltagirone. Nel carcere siciliano dove Abd Arahman Abd Al -Monsiff e Ala Abdelkarim, due dei tre calciatori libici fermati nel 2015, devono scontare 30 anni di detenzione per traffico di essere umani e omicidio colposo. Sono i ragazzi di Bengasi ritornati alla ribalta, a settembre scorso quando il generale Haftar li reclamò come merce di scambio per la liberazione dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati a Bengasi.

Nel 2015 a Bengasi, dove Abd Arahman e Ala vivevano alternandosi tra lo studio ed il calcio, c’era la guerra. Decidono di partire, di raggiungere l’Europa. Ottenere un visto è impossibile. L’unico mezzo che rimane è quello è imbarcarsi su una carretta del mare e attraversare il Mediterraneo. «Non raccontano nulla ai genitori perché hanno paura che si preoccuperanno, e si ripromettono di chiamarli appena arrivati in Italia», racconta Claudia Gazzini, esperta libica della Ong International Crisis Group che alcune settimane fa è andata in carcere per parlare con i detenuti.

L’ha fatto per cercare di ricostruire tutta la loro storia, spiega, dopo che la madre di uno dei ragazzi l’ha contattata, già nel lontano 2016, per aiutare i genitori a rintracciare il figlio di cui avevano perso le tracce. Le famiglie all’epoca erano molto preoccupate e non capivano cosa fosse successo. «Sapevano solo che i loro figli erano stati arrestati una volta sbarcati in Italia e non si davano pace».

Dal carcere di Contrada Noce, nei dintorni di Caltagirone, i ragazzi raccontano la loro storia. Per imbarcarsi pagano 1000 dinari (800 euro) a testa a scafisti di Zuwara, a ovest di Tripoli. Si imbarcano di notte. Con dei gommoni gli scafisti li portano su una barca di legno blu. In coperta c’era già una folla di gente ammassata, motori accesi. I ragazzi raccontano di viaggio "breve", solo 5 o 6 ore di navigazione con mare calmo. Ma qualcosa non funziona, perché su quel barcone partito il 14 agosto 2015 dalle coste libiche avviene l’ennesima strage delle migrazioni: 49 persone muoiono asfissiate. Erano rinchiuse nella stiva e furono scoperte quando l’imbarcazione in difficoltà, segnalata a 135 miglia a sud di Lampedusa, venne soccorsa dalla Marina militare italiana: 313 migranti e 49 cadaveri vengono fatti sbarcare a Catania. E qui, secondo i libici, inizia la "rocambolesca" avventura giudiziaria.

All’inizio Abd Arahman viene sentito come testimone, ma nel giro di poche ore lui e i suo due amici si ritrovano ad essere indagati, insieme ad altre cinque persone. Non capiscono perché. «Altri migranti sentiti come testimoni li accusano di aver dato botte a bordo della imbarcazione e di essere parte dell’equipaggio degli scafisti, cosa che loro negano nella maniera più assoluta – prosegue Gazzini –. Sia Abd Arahman che Ala raccontano di un viaggio relativamente tranquillo sulla coperta. Sentivano richieste di acqua provenire da sotto la coperta, e raccontano di aver visto due marocchini (non tra gli imputati) dare pugni a un uomo che cercava di salire su da sotto coperta. Ma nessuno delle persone a bordo si era accorto della tragedia che si stava consumando lì sotto, dove un centinaio di persone erano rinchiuse in un vano alto un metro e venti con poco ossigeno e tanto fumo del motore».

Durante l’interrogatorio di garanzia in carcere fanno scena muta: perché così viene loro consigliato dall’avvocato d’ufficio. «Fate così – aveva detto – e fra dieci giorni sarete fuori».

Ma il clima in Italia è pesante: ad aprile si era consumato il più grande naufragio del Mediterraneo con oltre 700 morti. L’opinione pubblica non ne poteva più di sentire parlare di mare e di morti. Così bisognava fare i fretta e buttarsi tutto alle spalle. Il 21 agosto inizia l’incidente probatorio: i nove testi sono della Costa D’Avorio, Sudan, Marocco. Non viene fatta la cosiddetta "prova del birillo". «Il caso è stato caratterizzato e dunque minato in partenza da indagini svolte in maniera estremamente frettolose», spiega l’avvocato Francesco Turrisi. I ragazzi raccontano, qualche giorno dopo al Tribunale di libertà, di essersi imbarcati come normali passeggeri e di non aver nulla a che fare con gli scafisti. Ma la loro richiesta viene respinta.

Nel 2016 tre imputati (fra cui il conducente della barca di origine marocchine) chiedono il rito abbreviato. Nel 2017 viene invece emessa la sentenza di primo grado dalla Corte di Assise di Catania, con processo di rito ordinario e condanna a 30 anni di carcere. I ragazzi e gli avvocati fanno ricorso. Il 23 luglio 2020 la Corte di Assise di Appello di Catania conferma la condanna. I due ragazzi sono considerati trafficanti e assassini.

Durante il processo di appello a Catania Abd al-Monssif dice: «Non ci eravamo accorti di nulla. Essendo libici ci hanno trattato con riguardo, come dei privilegiati sulla barca». «Il nostro desiderio era venire in Europa per giocare a calcio e studiare».

«Temiamo si sia trattato di un errore giudiziario», sostiene l'esperta libica. «Le dichiarazioni dei testimoni non collimano l’un l’altro, sui telefoni cellulari non sono stati trovati contatti con gli scafisti». Il prossimo 2 luglio è prevista l’udienza in Cassazione. «Speriamo in un annullamento con rinvio così forse alcune lacune nell’istruzione probatoria potranno essere colmate», conclude Claudia Gazzini. (Daniela Fassini)

La sentenza: volevano uccidere, spregio della vita umana

«Assoluto spregio della vita umana» unito alle conseguenze «pesantissime» dell’azione delittuosa, che «ha causato ben 49 morti» durante la traversata dalla Libia a Lampedusa. Sono due delle considerazioni dei giudici contenute nelle 83 pagine della sentenza – pronunciata nel giugno 2020 dalla Corte d’Assise di Appello di Catania – che un anno fa, nel giugno 2020, al termine di un processo con rito ordinario ha confermato la condanna a trent’anni di detenzione per omicidio plurimo e traffico di esseri umani inflitta nel 2017 in primo grado a cinque imputati per il naufragio del barcone soccorso dalla "Siem Pilot", che aveva a bordo 362 migranti, nella cosiddetta «strage di Ferragosto» del 2015.

Omicidio plurimo con «dolo eventuale». Rispetto al delitto di omicidio plurimo, si legge nella sentenza d’appello, la Corte ha ritenuto che la morte dei 49 passeggeri sia stato «un evento voluto, sia pure a titolo di dolo eventuale». Dalla relazione medico-legale risulta che «i decessi sono avvenuti per asfissia da confinamento» in uno spazio, la stiva, «ristretto e sovraffollato senza adeguato ricambio d’aria». E i giudici hanno ritenuto che vi sia stata «una volontà omicidiaria» negli imputati perché «avevano previsto e accettato, come possibile conseguenza della loro condotta, la morte» dei trasportati «per asfissia, in un luogo con esalazione di gas, senza areazione e con l’impossibilità di uscire dalla stiva, ove venivano ricacciati a botte».

Testimonianze e dubbi delle difese. Ora i cittadini libici Jomaa Laamami Tarek, Abdelkarim Alla F. Hamad e Abd Al Monssif Abd Arahman, il marocchino Beddat Isham e il siriano Jarkess Mohannad attendono il verdetto della Cassazione, alla quale i loro avvocati hanno fatto ricorso dopo il deposito della sentenza d’Appello. L’impianto accusatorio si fonda sulla convinzione dei giudici, argomentata sulla base delle prove raccolte, che gli imputati «siano stati coinvolti nel trasporto dei migranti nell’imminenza della partenza» da «soggetti libici che, armati e vestiti con giacche militari, effettuavano il trasferimento dalla spiaggia» libica «alla nave coi gommoni». Trasbordatori che avevano ammassato nella stiva cento persone, perlopiù «uomini di pelle nera» provenienti dall’Africa subsahariana, forse «per ragioni razziali». La ricostruzione è suffragata da testimonianze e riconoscimenti fotografici effettuati dai migranti sopravvissuti – «fornite nell’immediatezza», il 17 e 18 agosto 2015, e «puntualizzate in sede di incidente probatorio» il 21 e 24 agosto – che additano gli imputati come soggetti che hanno «impedito loro con la violenza di uscire nonostante urla, proteste e invocazioni di aiuto» e «colpito con cinture, calci e pedate chi tentava di risalire». Ma i difensori degli imputati (che in primo e secondo grado avevano avanzato un gran numero di obiezioni, sia sulle modalità di raccolta delle testimonianze che sulla qualificazione giuridica dei fatti) continuano a ritenere che «i buchi delle due sentenze siano clamorosi», per dirla con l’avvocato Michele Andreano, intervenuto solo in Cassazione su incarico dell’ambasciata libica per la difesa di Al Monsiff, insieme al collega catanese Francesco Turrisi. «Ritengo il ricorso in Cassazione assolutamente fondato – argomenta Andreano –. I miei motivi sono sei o sette». Anzitutto, osserva, c’è una «carenza di giurisdizione» poiché la nave militare di salvataggio è intervenuta in acque libiche. In pratica, ritiene Andreano, «i fatti non sono avvenuti in Italia», manca l’autorizzazione del Guardasigilli a procedere e ciò «è motivo legittimo di annullamento della condanna».

L’altro processo. Per concludere, in attesa di vedere come si pronuncerà la Suprema corte, va ricordato come in parallelo, per quegli stessi fatti, altri tre imputati (il libico Assayd Moahmed, il tunisino Couchane Moahmed Ali e il marocchino Saaid Mustapha, che hanno scelto il rito abbreviato) stiano già scontando una pena definitiva a vent’anni. (Vincenzo R. Spagnolo)

*** aggiornamento del 2 luglio

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 30 anni di carcere nei confronti di Abd Arahman Abd Al Monsiff, Tarek Jomaa Laamami e Alla F. Hamad Abdelkarim, «tre amici di Bengasi» partiti nel 2015 dalla Libia sognando un futuro in Europa, e di Isham Beddat e Mohannad Jarkess (Mohaned Khashiba). La condanna era stata confermata lo scorso anno dalla Corte di Assise di Appello di Catania dopo la sentenza della Corte di Assise di Catania del dicembre 2017. «Noi non ci fermiamo. Già lavoriamo a revisione poiché abbiamo nuove prove e, una volta sapute le motivazioni, faremo ricorso alla Cedu perchè vi sono profili di inesistenza della giurisdizione italiana» ha detto Cinzia Pecoraro, legale dei quattro calciatori libici. «Continueremo a batterci per la loro liberazione» commenta Claudia Gazzini, esperta libica per la Ong International crisis group.


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