Raffaele Cutolo - Ansa
"Meglio ù commanda che ù fotte". "Io ho fatto tanto, ho sempre regalato sorrisi a chi ne aveva bisogno". "La vera camorra sta a Roma, mica qua". È in queste affermazioni la storia, la leggenda, la realtà di Raffaele Cutolo. Si definiva "un Robin Hood", in realtà un sanguinario criminale, capace di ordinare quasi mille omicidi. Depositario di segreti e misteri sulle collusioni, gli affari, i compromessi con la politica. Idolatrato da tanti, soprattutto carcerati e sottoproletariato, ma blandito e usato anche da tanti potenti. Uomo della violenza e dei ricatti. Fino all'ultimo. Una vita nata all'ombra del castello mediceo di Ottaviano, simbolo di un potere che il giovane Cutolo vedeva, con invidia, dal basso. Passato poi nel 1980, per 270 milioni di lire, nelle sue mani, e quindi diventato simbolo del potere della sua camorra che pretendeva di rappresentare il riscatto dei poveracci. Infine nel 1991 confiscato e destinato a sede del Parco nazionale del Vesuvio, simbolo di riscatto e della vittoria dello Stato.
Una storia, la sua, ben rappresentata dalla famosa canzone Don Raffaè di Fabrizio De Andrè (il catautore confermò l'ispirazione, pur spiegando di non averlo mai incontrato, al che Cutolo gli scrisse proponendo un incontro, ma non ebbe neanche una risposta), in particolare in alcune frasi del “secondino” di Poggioreale, Pasquale Cafiero: “don Raffaè voi politicamente, io ve lo giuro sarebbe ‘no santo, ma ’ca dinto voi state a pagà e fora chiss’atre se stanno a spassà”. Ma in carcere Cutolo è anche altro, come dimostra la notte del 23 novembre 1980. È il terribile terremoto che sconvolge Campania e Basilicata, l'evento che per Cutolo e per la camorra rappresenta il salto di qualità, tra gli affari per la ricostruzione, l'intreccio perverso con la politica, i rapporti con settori delle istituzioni, culminati col rapimento dell'esponente Dc, Ciro Cirillo da parte delle Br e le successive inquinatissime trattative, in carcere, con la presenza di politici e 007, per il rilascio di Cirillo, nelle quali il boss ottenne favori e affari (ci provò anche per il rapimento di Moro).
Ma quella notte per Cutolo fu anche occasione di terribili vendette nei confronti degli avversari, con ben tre morti ammazzati nel carcere di Poggioreale. La scena la raccontò il collaboratore di giustizia Mario Savio, ras dei Quartieri Spagnoli e cutoliano di ferro. “Al centro c’era lui, Raffaele ‘O Professore. Era circondato dale guardie scelte. Saranno stati una sessantina di detenuti. La vestaglia di seta era la sua inquietante e grottesca divisa da generale golpista. Con calma e decisione impartiva gli ordini in quello spazio gigantesco, di cui aveva assunto il controllo totale. Divise gli uomini in piccolo squadre. Ad alcuni consegnò la lista dei condannati a morte, ad altri assegnò il compito di scavare una via verso l’uscita”. Il 18 febbraio 1981, in occasione di una seconda fortissimo scossa, la scene si ripete, con altri tre omicidi in cella. Cutolo aveva un controllo totale del carcere. Chi si opponeva doveva morire. Accadde a Giuseppe Salvia, vicedirettore di Poggioreale che, non accettando i suoi privilegi, lo faceva perquisire più volte al giorno. Il 7 novembre 1980 gli agenti penitenziari gli espressero le loro paure. “Dotto’, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…”. Così Salvia uscì dal suo ufficio e andò lui stesso a perquisire Cutolo. Un gesto che metteva in discussione la sua autorità, il boss tentò una reazione provando a sciaffeggiarlo. E non dimenticò. Il 14 aprile 1981 Salvia venne ucciso. Aveva appena 38 anni.
Il sindaco di Pagani, Marcello Torre invece si oppose alle pretese della camorra sulla ricostruzione. Pagò con la vita l'11 dicembre 1980. Uno dei nove ergastoli di Cutolo. Dal carcere continuava a comandare e ad essere cercato, come per la trattativa per la liberazione di Cirillo. Il 25 febbraio 1982 il ministro dell'Interno, Virginio Rognoni, ordina il suo trasferimento nel supercarcere dell'isola dell'Asinara. Ma la misura tarda ad essere applicata e deve intervenire il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il 18 aprile viene imbarcato per la Sardegna. Unico detenuto all'Asinara, ben altro trattamento dell'"hotel" come veniva definito il carcere di Ascoli Piceno. Tre mesi dopo le Br uccidono il capo della Squadra mobile di Napoli, Antonio Ammaturo e l'agente di scorta, Pasquale Paola. È un favore a Cutolo, parte dell'accordo costruito col rapimento di Cirillo, in gran parte ancora avvolto nel mistero.
E lui su questo quasi gioca, dicendo e alludendo. "Non è megalomania la mia, ma io sono perfettamente consapevole del rigore, della serietà, del genio con cui io solo ho studiato nei dettagli il rilancio della camorra, quella vera, rispetta e temuta dalla mafia e dalla 'ndrangheta, come grande famiglia in grado di dare aiuto e dignità agli sbandati, ai diseredati, ai vagabondi". Torna questa sua immagine da Robin Hood, mentre però stringe alleanze proprio con cosa nostra e 'ndrangheta, con la Banda della Magliana e con quel mondo oscuro romano che i "ragazzi" della Banda frequentavano. E poi, rivendica Cutolo, "visto che dovevo trascorrere gli anni migliori della mia vita in carcere, intendevo viverli da capo, con un mio potere e un mio esercito, un apparato verticistico, con un capo assoluto, io, Raffaele Cutolo, il Professore, un gruppo ristretto di generali, di rappresentanti di zona e un esercito di volontari disposti a tutto. Proprio una nuova Camorra. Una Nuova Camorra Organizzata".
Non sono affermazioni velleitarie. Il suo ruolo e il suo potere sono confermati nel 1993 della Commissione parlamentare antimafia nella prima relazione sulla camorra. "A un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità e una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie". Sembra un benefattore, ma è anche il boss che all'apice del potere vola a New York, sotto il falso nome di Prisco Califano, per incontrare i vertici della famiglia mafiosa italo-americana dei Gambino.
Un ruolo che ha continuato ad avere, o a pretendere, anche dal carcere. Ogni tanto uscivano voci di un suo "pentimento", ma poi era sempre lui a smentire. "Secondo lei è morale fare arrestare 500 persone innocenti o colpevoli per andare a letto con la moglie o l'amante, pagati e protetti dallo Stato? È da anni che i magistrati cercano di convincermi. E sono orgoglioso di aver sempre resistito alla tentazione". Una volta sembrò cedere, era il 1994, ma intervennero i servizi segreti, come raccontò nel 2010 l'ex capo della Dda di Napoli, Franco Roberti, poi procuratore nazionale antimafia. E 'O Professore ha mantenuto il silenzio. Sapendo bene che i misteri tenuti ben stretti erano una sorta di assicurazione sulla vita. Ed è rimasto coerente fino all'ultimo. Così Annamaria Torre, figlia del "sindaco gentile" di Pagani, commenta amaramente: "Non ho mai augurato la sua morte, ma avrei voluto solo la verità, per me e per tanti familiari delle vittime innocenti della camorra. E invece se la è portata nella tomba. Ma di una cosa sono certa: dei nostri cari continueremo a parlare, di lui spero non si debba mai più dire nulla".