«La sensazione è che ci siano territori di questa città lasciati completamente a se stessi» osserva la sociologa della Cattolica Rosangela Lodigiani. Territori che col tempo hanno perso coesione sociale e ora rischiano di diventare simboli di un disagio nascosto, pronto a esplodere improvvisamente. Tentare di dare una chiave di lettura univoca alla vicenda del tassista finito in coma a Milano non è semplice, visto che quanto è successo va chiarendosi solo col passar delle ore. Però un ragionamento sulle nuove dinamiche sociali che tendono a imprigionare Milano va fatto. «Occorre cautela nel giudicare – premette Lodigiani, che ha curato il Rapporto 2010 sulla città pubblicato dall’Ambrosianeum –. Prima di tutto va detto che siamo davanti a un episodio di violenza gratuita, all’atto sconsiderato di una persona. Forse però occorre riflettere di più su quel che è successo dopo».
Il silenzio, l’omertà, le intimidazioni agli stessi testimoni oculari... Ciò che colpisce di più è la sensazione che ci siano intere zone ripiegate su se stesse, che si sentono come separate dal resto della città. Ci si autoesclude dal tessuto cittadino per recuperare senso di appartenenza. Questo può essere un fatto positivo, finché non porta a sviluppare reazioni contro tutto e contro tutti. È come se ci si dovesse difendere da qualcosa che arriva da fuori.
Per ora, a rimetterci è stato un tassista. Perché? Non c’è dubbio che la categoria dei tassisti sia particolarmente esposta e che la loro sicurezza rappresenti un problema serio. Certo, parlare di porto d’armi per loro come ha fatto qualcuno, non appare una risposta adeguata.
Come spiega il clima di tensione che ha accompagnato l’azione sul territorio di forze dell’ordine e investigatori? Quando nascono microcomunità molto chiuse, la gente si chiude a riccio nel proprio privato e anche la domanda di sicurezza trova risposte di tipo personale. Neppure i garanti dell’ordine esterni vengono accettati, quasi infrangessero un patto tacito di autotutela. Eppure in questi anni a Milano diversi quartieri sono stati il punto da cui ripartire, con esperienze importanti di animazione sul territorio. Laddove si riescono a ricreare legami sociali, la sicurezza non rappresenta più un incubo.
In questo caso, alcuni cittadini hanno rotto l’omertà e hanno raccontato l’accaduto. È un fatto molto importante. Quando emerge, il senso di responsabilità dei cittadini va sostenuto e valorizzato. Di più: andrebbe incoraggiato in un momento come questo di particolare difficoltà per la città nella costruzione dei legami sociali, perché riporta a un senso di solidarietà allargata che abbiamo perso.
Perché Milano è diventata una città impaurita? Perché le politiche di tipo securitario da sole non aiutano: diffondono un senso di insicurezza, che in alcuni casi produce intolleranza, come ricordano i casi di via Padova e dei campi rom. La Caritas ambrosiana recentemente ha proposto di trasformare lo slogan 'Milano sicura', in 'Milano si cura'. È un’idea giusta: invece di creare confini ed esclusione, occorre prendersi cura gli uni degli altri. Come dice il cardinale Tettamanzi, non si può parlare di sicurezza senza parlare di accoglienza, di apertura e di incontro con l’altro.