Nel 2002 le prime indagini legate ai pozzi lucani. E la furia di Cossiga contro i pm Proprio mentre i pm della Procura di Potenza, a Roma, interrogavano il ministro per le riforme Maria Elena Boschi in qualità di persona informata sui fatti, il Tribunale del capoluogo lucano condannava nove persone a conclusione del processo 'Totalgate'. Si tratta di un altro capitolo legato allo sfruttamento degli idrocarburi in Lucania. E sul quale i pm indagavano dal 2008. Le imputazioni, a vario titolo, riguardano i reati di corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del centro oli di 'Tempa Rossa', ubicato al confine tra le province di Potenza e Matera. In tutto le pene ammontano a 47 anni e sei mesi, la metà rispetto ai 90 anni chiesti dal pm Vincenzo Calcagno. Tra i condannati l’ex ad di Total Italia, Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione), l’ex manager della compagnia petrolifera francese, Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), imprenditori, professionisti e tecnici locali pubblici e privati. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo, il giudice Aldo Gubitosi ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». L’inchiesta fu condotta 8 anni fa dal pm Henry John Woodcock – ora in servizio a Napoli e che ieri ha espresso soddisfazione «per la conferma della bontà dell’impianto accusatorio» – in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero dovuto ospitare il Centro oli e la concessione degli appalti per i lavori. Fu proprio lui, Woodcock, ad accendere i riflettori della magistratura potentina, nel 2002, sulle attività estrattive in Basilicata. Il pm stava indagando sul direttore di un’impresa lucana che pagava un dipendente con cifre inferiori rispetto a quelle indicate in busta paga. Di lì a poco la scoperta più importante: l’impresa avrebbe utilizzato fondi neri per pagare mazzette (in cambio di appalti) all’Inail. Ma non solo. Woodcock scoprì che rilevanti somme di denaro venivano indirizzate anche all’Eni- Agip, alle prese con i pozzi petroliferi lucani, i più importanti dell’Europa continentale. E così, se per il primo filone (Inail) finirono in carcere 14 persone, per il secondo (Eni), il 16 settembre 2002, scattarono le manette per 17 imputati. Il generoso imprenditore confessò di elargire 'regali' a politici e dirigenti. Il pm ipotizzò un reato associativo che riguardava un rodato comitato di affari nel quale fecero la comparsa, nelle imputazioni della Procura, anche banchieri, uomini della Guardia di finanza e anche un generale dei carabinieri, già responsabile della scorta del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale, nelle ipotesi accusatorie, avrebbe rivelato a un indagato notizie sulle indagini in corso. Il presidente reagì duramente sbeffeggiando i magistrati definiti «azzeccagarbugli ». Ma il Tribunale del riesame non fu dello stesso avviso. E dei 14 imputati del primo filone ne mantenne agli arresti 13. L’inchiesta si allargò a macchia d’olio fino a ipotizzare una «holding del malaffare», con la regia operativa a Roma, forte di 76 componenti. Il 9 gennaio 2004 la decisione della Corte di Cassazione: l’inchiesta deve essere trasferita a Roma per competenza territoriale. Molti 'pezzi' dell’indagine si persero per strada, altri finirono fino al Tribunale dei ministri (che assolse Maurizio Gasparri e Antonio Marzano). Ma non pochi chiesero di patteggiare. Furono le evidenze delle prime indagini e i ripetuti allarmi ambientali causati dalle estrazioni, a spingere i vescovi della Basilicata a redigere un documento durissimo nel quale si definì quello lucano come uno «sviluppo distorto».
© RIPRODUZIONE RISERVATA