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Un dibattito svoltosi al congresso dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci) ha mostrato in tutta chiarezza l’importanza che gli italiani attribuiscono al Servizio sanitario nazionale (Ssn), ma anche quanto siano preoccupati per il suo futuro tuttavia, temendo che abbia intrapreso una via di declino. Infatti, guardando al sistema nel suo complesso, emergono gravi disuguaglianze tra i territori, a partire dalle lunghe liste d’attesa che spingono molti a rinunciare alle cure, se non possono permettersi di pagarle nel privato.
I medici per primi lamentano una situazione lavorativa che spinge molti di loro, e soprattutto i giovani, a lasciare il Ssn: paghe insufficienti, tempi di lavoro stressanti e dedicati a tanta burocrazia, impossibilità di far fronte alle richieste e alle sofferenze dei pazienti («che spesso si esprimono nel silenzio», ha ricordato il presidente dell’Amci, Filippo Boscia), il crescere di episodi di aggressione fisica. E i medici cattolici in particolare si interrogano sulla necessità di mantenere la capacità di accompagnare l’uomo sofferente, con una testimonianza fondata sull’esempio di Cristo.
I problemi sicuramente non mancano ma, come ha sottolineato Mariella Enoc, già presidente dell’ospedale Bambino Gesù di Roma e tuttora manager sanitario in un ospedale lombardo, la realtà è meno nera di quanto la si voglia far apparire: «Non dobbiamo guardare solo alle pecche del nostro Ssn, ma anche alle sue qualità, che lo rendono tuttora uno dei migliori al mondo. Certamente ha bisogno di essere rivisitato, scomposto e attualizzato alla situazione odierna, con la collaborazione del privato in un giusto rapporto».
Enoc ha rievocato le origini del Ssn nel 1978, quando si è abusato delle sue risorse (tanti esami e farmaci inutili), dimenticando la solidarietà: «Occorre che ciascun operatore cominci a lavorare secondo il proprio dovere, non attendendo che capiti qualcosa dall’alto. Certo, le risorse servono, ma molte volte ho fatto iniziare ricerche senza fondi, che poi sono arrivati. Mi colpì un ricercatore (è vero che sono pagati troppo poco) che mi disse: mi ricordo sempre che dietro una provetta c’è sempre un bambino».
E sulla base di un concetto di solidarismo (per l’intera società) ha esortato i medici a “riappassionarsi” della loro professione, le istituzioni a parlare bene del personale sanitario («fa diminuire la violenza, che c’è dappertutto, anche sulle strade e negli stadi»): «Occorre che manager e politici, invece di svalutarlo, parlino con stima e orgoglio del nostro Ssn e lo facciano apprezzare alla popolazione: si otterrebbero anche migliori risultati».
«Esistono diseguaglianze nel nostro Ssn – ha ammesso il direttore generale della Programmazione del ministero della Salute, Americo Cicchetti – sicuramente tra le Regioni, ma soprattutto tra aree interne e aree metropolitane. E un’altra iniquità è la disuguaglianza degli stati di salute, anche se occorre ricordare che solo per il 20% dipendono dalla qualità dei servizi sanitari, molto altro da altri determinanti socioeconomici, come la povertà, i trasporti, il lavoro, le politiche ambientali».
Fondamentale, ha aggiunto, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che nel 2001 ha introdotto il regionalismo, è il ruolo dei Livelli essenziali di assistenza: «Ma quando si è cominciato a misurare come si spendevano le tante risorse immesse nella sanità negli anni 2000-2007, è emerso che non tutti i territori li utilizzavano al meglio. Talvolta privilegiavano il consenso politico di tenere aperti piccoli ospedali o ampliate le unità operative anziché agire secondo l’efficienza tecnica necessaria: lo dimostra – ha aggiunto – anche il tasso di occupazione di posti letto, che in media in Italia è all’80% ma in alcuni territori è solo al 60%». «Occorre – ha concluso Cicchetti – investire nei direttori generali delle Asl, che spesso gestiscono l’azienda più grande e importante di un territorio provinciale».
«Al medico però – ha puntualizzato il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli – non deve essere chiesto di portare un bilancio positivo in termini economici: in Europa, dopo gli accordi di Lisbona, ci stanno trasformando in aziende, invece che valutarci secondo l’arte medica». E i bilanci stringenti si traducono in danni ad ampio raggio: «Per parlare con il paziente occorre tempo, bisogna investire nel personale sanitario, medici e non solo: abbiamo bisogno anche di infermieri, psicologi e altri terapisti. E migliorerà anche il lavoro dei medici. Invece dopo la pandemia, si è preferito investire nell’edilizia».
Al medico cattolico spetta comunque, aveva rimarcato in precedenza don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio di pastorale della salute della Cei, «il dovere della testimonianza della presenza redentrice di Cristo nella storia. E il medico, oltre alla responsabilità professionale e giuridica, ha quella morale: non può sentirsi obbligato a fare qualcosa che in coscienza non vuole. Pur dovendo sempre cercare di sollevare il più possibile il paziente dalla sua condizione di sofferenza».