«Non c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro. Le religioni, in particolare, non possono rinunciare al compito urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture. È giunto il tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con coraggio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace». Con questa visione il 4 febbraio di cinque anni fa papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahamad al-Tayyeb, massima autorità dell’Islam sunnita, avevano siglato tra i minareti e gli sceicchi nella lingua di terra islamica affacciata sul Golfo Persico il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», disinnescando le trappole ideologiche dei fomentatori delle “guerre culturali” di ieri e di oggi e mandato in prescrizione l’impropria considerazione del Pontefice come “cappellano dell’Occidente”. Che un Papa sia stato accolto a braccia aperte nel cuore della penisola arabica richiama oggi, nel clima di conflitto in cui ci troviamo, la necessità di approfondire quanto accadde quel giorno.
«Ho accolto l’opportunità di venire qui – aveva esordito il Papa arrivando negli Emirati Arabi – come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo». E chi quella sera nella sala del Memorial ad Abu Dhabi assisteva a quell’atto coraggioso e senza precedenti, tenuto fino all’ultimo sotto silenzio, aveva subito letto nei gesti, nel linguaggio, nel titolo stesso del documento un comune humus legato a una vena antica: la fratellanza umana. Declinare una simile questione vitale anche davanti ai conflitti attuali risponde alle attese del nostro tempo. Non c’è dubbio che il documento firmato cinque anni fa rappresenti ancora una pietra miliare, segnando un punto di non ritorno, a più livelli.
Con note forti il testo mette infatti a chiare lettere il rispetto reciproco per sbarrare la strada a quanti soffiano sul fuoco dello scontro di civiltà e dichiara fermamente che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Firmando tale impegno, il Successore di Pietro e uno dei più autorevoli leader del mondo islamico avevano chiesto ai grandi del mondo e agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale di invertire la rotta della guerra e delle violenze e di «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace». Con quel gesto e quel documento avevano mostrato l’importanza del dialogo tra le diverse fedi come condizione imprescindibile per la pace, dunque un «dovere per i credenti», coinvolgendo anche le diverse sfere della società civile. Dimostrarono così che le religioni possono impegnarsi in questa prospettiva e che è possibile portare avanti processi di pacificazione e di promozione del bene comune.
Non meraviglia allora che da quello storico giorno il documento sia stato consegnato dal Papa a ogni leader politico incontrato e sia stato da lui scelto per tirare le file di un’epoca, quella segnata dall’attentato alle Torri Gemelle di New York: «Dopo quanto accaduto l’11 settembre 2001, era necessario reagire, e reagire insieme, al clima incendiario a cui la violenza terroristica voleva incitare e che rischiava di fare della religione un fattore di conflitto», come ha affermato nel suo discorso in Kazakhstan, nel settembre 2022. «Solo servendo la pace si resta nella storia»: sulla base della dottrina sociale e della strada maestra del Concilio, il Papa ha ben chiaro che «la via del dialogo interreligioso è una via comune di pace e per la pace, e come tale è necessaria e senza ritorno».
Da Abu Dhabi il dialogo interreligioso è un servizio urgente e insostituibile all’umanità. E da un punto di vista ecclesiale è stato certamente «un passo avanti, ma un passo avanti che viene dopo cinquant’anni anni, dal Concilio che deve svilupparsi» come aveva commentato lo stesso Francesco. Il testo della Dichiarazione, affondando infatti le radici nella costituzione conciliare Gaudium et spes, è parte ora del patrimonio e della tradizione della Chiesa cattolica, per la quale con il Successore di Pietro, la Chiesa sente la responsabilità di spegnere i conflitti e di edificare ponti nella società. Questa è la rotta lungo la quale si sono mossi anche i grandi viaggi apostolici di Francesco: da Gerusalemme alla Mongolia, all’Iraq, culla delle fedi abramitiche, dove il Papa ha incontrato un leader dell’Islam sciita come al-Sistani.
«Siamo convinti che per questi ponti passano la cooperazione per il bene comune e l’edificazione della pace del mondo», continua a ripetere Francesco con gesti eloquenti. Il Documento di Abu Dhabi – il primo a essere siglato da un Papa con un’autorità religiosa islamica – è così entrato a far parte del bagaglio ecclesiale che verrà tramandato come punto di riferimento. Che sia stato preparato «con grande riflessione» e «pregando» sia da parte del Grande Imam che del Papa, lo aveva affermato lo stesso Francesco sul volo di ritorno dagli Emirati: «Abbiamo pregato tanto per riuscire a fare questo documento, perché per me c’è un solo grande pericolo grande in questo momento: la distruzione, la guerra, l’odio tra noi. E se noi credenti non siamo capaci di darci la mano, e anche pregare nella nostra fede, sarà una sconfitta. Questo documento nasce dalla fede in Dio che è Padre di tutti e Padre della pace. E condanna ogni distruzione, ogni guerra e terrorismo. Il primo terrorismo della storia è quello di Caino».
Siamo consapevoli che c’è ancora tanta strada da percorrere. Davanti alle distruzioni in Europa e in Medio Oriente non è forse questa la coscienza in cui sono tenuti specchiarsi in particolare i troppi “caino” delle fedi abramitiche?