La nota verbale della Santa Sede consegnata lo scorso 17 giugno alle autorità italiane non può essere ridotta a una mera questione concordataria. Per quanto il Concordato sia di fondamentale importanza. Quell’atto richiama infatti problemi di natura ben più ampia, che travalicano un eventuale "conflitto" tra cattolici e non, per porsi come nodi di vera e propria costituzionalità. Il parere viene da Carlo Cardia, uno degli studiosi più autorevoli di Diritto ecclesiastico (la branca giuridica che studia i rapporti tra Stato e Chiesa), ordinario all’Università Roma Tre e membro (per parte statale) della Commissione paritetica che portò alla Revisione del Concordato nel 1984. L’esperto perciò, mentre sul piano personale approva la mossa della Santa Sede, invita comunque a evitare pericolosi «riduzionismi».
Che cosa intende dire, professore?
Innanzitutto che di fronte a questo atto dobbiamo evitare la tentazione di ridurre tutto a una mera difesa degli interessi cattolici da parte della Santa Sede. Ovvio che c’è anche questo. Ma vedo nella nota qualcosa di più, che interessa tutti i cittadini italiani e dunque ha portata generale. In termini più giuridici direi una portata costituzionale.
In che cosa consiste il «di più» al quale accennava?
Le obiezioni che si intravedono nella nota della Santa Sede rimandano alla libertà di espressione del pensiero. E questa non è solo una questione che investe i cattolici, ma tutti gli italiani, tutte le persone che abitano nel nostro Paese, tutte le organizzazioni e le associazioni di qualunque orientamento. Per questo dico che siamo di fronte a un richiamo molto puntuale e severo affinché il testo legislativo fin qui elaborato venga profondamente rivisto, per superare alcune criticità davvero importanti.
A che cosa si riferisce in particolare?
Parlo della questione del gender, trattata in maniera abbastanza generica e perciò alla fine ambigua. Parlo della promozione di certe iniziative cui si obbligherebbero - uso il condizionale - anche le scuole pubbliche non statali o comunque strutture riconducibili al mondo religioso. Ora queste obiezioni, che ritengo giuste, riguardano l’Italia intera e tutti i diversi raggruppamenti sociali. Non solo - lo ripeto - gli ambienti cattolici.
A giudicare dalle prime reazioni, però, non sono in molti a pensarla in questo modo.
E allora mi lasci dire una cosa in base alla mia esperienza di studioso del diritto ecclesiastico. Con la difesa del Concordato in realtà si difende un principio di carattere generale, perché il Concordato non è stato inserito nella Costituzione per difendere solo la libertà dei cattolici. Esso va visto nel quadro più ampio del nostro ordinamento costituzionale, nel quale la libertà di religione e di manifestazione del pensiero c’è a prescindere dal Concordato. Ovviamente il Concordato le conferma, ci mancherebbe altro. Ma qui il richiamo al Concordato viene fatto per evocare principi che valgono per tutti. Anche per le altre confessioni religiose.
Si spieghi meglio.
Il sistema costituzionale che fa leva sugli articoli 7 e 8 della Carta - quelli in cui si parla di concordato per la Chiesa cattolica e intese per le altre confessioni - e sull’articolo 19 della Costituzione («tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume»), è un sistema complesso e completo, valido per la generalità dei cittadini. Dunque le leggi ordinarie non possono andare oltre questi limiti.
Sta dicendo che il ddl Zan, così come è scritto ora, presenta profili di incostituzionalità?
A mio avviso sì. E ci sono gli strumenti per evitare l’incostituzionalità, prima di tutto attraverso le modifiche in parlamento, come già si sta facendo, e poi a livello ordinamentale. E alla fine è questo ciò che più conta. Perché qui sono in discussione le libertà di tutti, non solo dei cattolici.