Nel documento del Consiglio straordinario molti impegni, ma non quello per una comune struttura investigativa ROMA «Non possiamo decidere e poi non realizzare le decisioni, perché ciò sarebbe un regalo ai terroristi e il fallimento dell’Europa… ». È l’invito del ministro dell’Interno Angelino Alfano a un cambio di passo delle istituzioni europee, che superi la titubanza ad adottare misure concrete per fronteggiare lo spettro del terrorismo jihadista. Il «decalogo» di impegni concordato giovedì dal Consiglio straordinario dei ministri di Giustizia e Interni Ue appare pieno di buoni propositi, ma senza quel forte scatto in avanti invocato da più parti dopo le bombe di Bruxelles. Nel documento, figurano l’invito «urgente» a favorire indagini comuni sulle «reti coinvolte» nei recenti attentati a Bruxelles e Parigi e su «altre reti analoghe»; l’impegno a perfezionare la condivisione delle banche dati e dei casellari giudiziari; una stretta sui controlli alle frontiere esterne della Ue, sull’acquisto di armi da fuoco e altro ancora. C’è poi un’accelerazione nel varo della direttiva sul Pnr, il registro dei passeggeri dei voli aerei per individuare gli spostamenti di
foreign fighters e presunti estremisti: il Parlamento Ue dovrebbe approvarla «entro aprile». Tra gli altri spunti concreti, c’è la volontà a completare «la legislazione di contrasto al terrorismo », a incentivare l’uso delle «squadre investigative comuni» e all’istituzione d’una
equipecongiunta di esperti nazionali, presso il centro europeo di lotta al terrorismo di Europol. Ma mancano accenni a un percorso verso la formazione di una procura europea anti-terrorismo, auspicata nei giorni scorsi anche dal governo italiano, o a un’agenzia di intelligence comunitaria, sulla quale le resistenze nazionali sarebbero comunque forti.
L’appello di Orlando. «Non basta accumulare dati e informazioni, se non sono esaminati alla luce di un’intelligenza comune – ha chiesto il Guardasigilli ai colleghi europei –. All’indomani degli attentati a Parigi abbiamo iniziato a lavorare alla direttiva europea contro il terrorismo», ma le «incertezze e le diffidenze hanno ridotto al minimo la portata di armonizzazione. È tempo di lavorare a una Procura europea antiterrorismo e all’armonizzazione delle norme penali, per colpire tutti i tipi di viaggi, tutte le forme di finanziamento, il traffico di armi e l’utilizzo della rete come strumento di odio e proselitismo». Purtroppo, osserva il ministro, «permangono logiche nazionali, in cui ognuno coltiva l’illusione di saper combattere il fenomeno terroristico da solo, con le proprie leggi, magari anche più dure. Ma è un errore». La richiesta del ministro è suffragata da valutazioni di esperti, come il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti e altri magistrati, e da parlamentari come Stefano Dambruoso, già pm delle inchieste sul terrorismo qaedista: «Ci vorrà tempo, ma dobbiamo puntare a una procura Ue e a una polizia con competenze sul territorio dell’Unione – afferma –. Non possiamo più permetterci divisioni che avvantaggiano i terroristi». Servirebbero diversi passaggi, spiega il professore Stefano Manacorda, ordinario di diritto penale alla Seconda università di Napoli: «L’attuale Eurojust è un prolungamento della 'cooperazione orizzontale' fra gli organi giudiziari nazionali, non 'verticale', fa da stanza di collegamento in occasione di inchieste transnazionali». C’è, aggiunge il docente, «una base giuridica, nell’articolo 86 del Trattato di Lisbona, per l’istituzione di uno European public prosecutor office (Eppo), ma con competenza a occuparsi esclusivamente della tutela degli interessi finanziari della Ue. E c’è una proposta di regolamento del 2013, ancora non approvata, coerente con quel limite». Per estenderlo ad altre fattispecie di reato, come il terrorismo, cosa occorrerebbe? «Se ci fosse la volontà politica dei 28 Stati membri, si potrebbe far ricorso all’ultimo comma dell’articolo 86, che prevede una decisione all’unanimità del Consiglio europeo, in caso di reati transnazionali come terrorismo o criminalità organizzata. Ma il criterio dell’unanimità è la prima difficoltà'. E il Guardasigilli si dice consapevole delle «forti resistenze, specie da Paesi dell’Est europeo e anche da alcuni importanti Paesi fondatori dell’Ue». Il Regno Unito, ad esempio, già restio ad altri aspetti “comunitari” e alle prese col referendum sulla Brexit, non vedrebbe di buon occhio un organismo ritenuto poco compatibile col proprio sistema giuridico. Non solo: lo stesso Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca hanno fatto
opt out su questa materia, hanno cioè rinunciato a partecipare alle strutture comuni.
Il rischio di tergiversare. Negli ultimi 12 anni, l’ondata emotiva seguita all’orrore di ogni attentato sul suolo europeo ha indotto nei governanti degli Stati membri prese di posizione. Nel 2004, dopo le bombe a Madrid, fu istituita la figura del coordinatore europeo antiterrorismo (oggi il belga Gilles de Kerchove) con funzioni di analisi e di stimolo politico, ma senza poteri investigativi o giudiziari. Anche allora si discusse della possibilità di dar vita a un’agenzia di intelligence comune ('una Euro-Cia', scrissero i quo- tidiani). Ma prevalsero le resistenze degli Stati membri e non se ne fece nulla. Della direttiva sul Pnr, invece, si parla da sei anni, con un’intensità crescente dal 2013, quando l’allarme sui
foreign fighters europei è iniziato a crescere insieme al loro numero (ora sarebbero diverse migliaia). Ma solo dopo le stragi di Parigi dell’anno scorso, la direttiva ha avuto il primo via liberà dell’Europarlamento, superando le perplessità in materia di privacy. Se davvero verrà approvata ad aprile, gli Stati membri avranno comunque 2 anni di tempo per recepirla. Intanto, altri estremisti faranno la spola fra l’Europa e le zone di guerra in Siria e Iraq: «Entro ed esco dal Belgio come voglio», dichiarava Abdelhamid Abaaoud, fra gli autori degli attentati a Parigi. La diffidenza, conclude il ministro Orlando, «è un lusso che non possiamo più permetterci. Ne va della nostra sicurezza».
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